MARZO-MAGGIO 2020
testo inviato a Giacinto Di Pietrantonio per l’invito a un progetto relativo al periodo di quarantena
(progetto successivamente non realizzato)
testo inviato a Giacinto Di Pietrantonio per l’invito a un progetto relativo al periodo di quarantena
(progetto successivamente non realizzato)
Caro Giacinto,
ti invio queste riflessioni riguardano pensieri che rimugino da tempo e che l’improvvisa condizione scatenata dal Coronavirus, ha in qualche modo riattivato.
Soprattutto mi preoccupa una riorganizzazione dell’esistenza e di tutto in un senso un po’ militare… Chiedevo agli studenti cosa provassero e mi confermavano che avrebbero preferito tornare a scuola… Quello che mi allarma di questa situazione, oltre alla povertà che probabilmente dilagherà con tutte le conseguenze, è pensare a una futura esistenza organizzata, controllata e distanziata, con un conseguente ulteriore impoverimento dialettico, per cui le zone franche (già ridotte a un dentro di sé), la discussione, la compartecipazione, l’empatia, l’entusiasmo, la protesta e le battaglie collettive, saranno inibite o rese innocue (come del resto è già, ormai da anni, almeno in Italia).
Il Coronavirus ha palesato come quanto c’era già rischia di continuare a meno di coraggiosi cambiamenti.
Cambiamenti che interrompano la staticità di una cultura che sembra operare prevalentemente al di là di una ricognizione storica, in nome di una presunta libertà collettiva anonima e senza gerarchie, una cultura per cui le cose, pur moltiplicandosi e reiterandosi con alcune varianti, alimentano e mantengono uno stato di immobilismo, e questo riguarda sia la realtà fisica che quella virtuale digitale, che a me sembrano per lo più rispecchiarsi.
Nei frangenti più drammatici si invoca l’importanza della cultura, l’importanza dell’arte.
Però io mi sono sempre chiesta: ma quale cultura e quale arte? E quindi quale realtà…
Voglio dire che la realtà dell’arte deve sussistere in uno spazio di indipendenza, solo così sarà possibile la sua funzione vitale e la sua carica inventiva. L’epoca attuale è pervasa da un’arte e da un pensiero di copertura, una vetrina estetica e culturale collegate a un modello sociale già deciso, e tutto nasce e finisce lì.
Perciò per me la questione non è “reale” o “digitale”, “da vicino” o “a distanza”.
Occorre altro…prendersi la libertà di invocare e sostenere l’autonomia dell’arte.
Noto che le operazioni culturali spesso si appoggiano su qualcosa che ha avuto un valore e uno spessore storico e su questo, ma alla sua faccia, vi si innesta il proprio “nuovo indistinto”: chiamato poi “luogo di evoluzione”, “luogo di connessione e sperimentazione”, “cross-reality”, eccetera, eccetera, definizioni che mi danno la sensazione dell’inconsistenza.
Per esempio mi sto riferendo a come, appoggiandosi al nome e alla storia della Casa degli Artisti di Milano, si promuovano ora, sotto il nome Casa degli Artisti (nome che fu dato dagli iniziatori al momento della sua fondazione, nel 1978, prima si chiamava Casa dei Pittori), eventi in totale opposizione a ciò che alla Casa degli Artisti si è difeso e promosso.
Ho appena letto una frase citata da Oscar Wilde, “si può esistere senza arte, ma senza di essa non si può vivere”, Duchamp diceva anche che l’arte è una droga ad assuefazione e la gente manda giù qualsiasi cosa, diceva che l’arte era diventata un prodotto al pari dei fagioli, e la gente comprava arte come compra gli spaghetti (ed eravamo negli anni ’60).
Nella storia ci sono artisti che si sono venduti, assecondando il potere, e questo è evidente nella loro opera, e ci sono artisti che non si sono venduti, come dimostrano le loro opere.
L’arte che ha determinato la storia in un senso di prestigio e di alimento vitale è sopravvissuta grazie alle fatiche dei pochi che non hanno assecondato il modello di potere.
Allora le mie riflessioni riguardano il fatto che affinchè qualcosa cambi in positivo deve emergere con particolare evidenza, ciò che ha espresso prestigio, intelligenza, lucidità, vitalità, rinnovamento, al di fuori delle mode, delle tematiche, degli stilismi di un’epoca, e tutto questo possa ricreare una comunità di pensiero e dibattito, facendo rinascere un’identità e un’energia allargata.
Quello che auspico è una rinnovata disposizione allo studio e all’analisi di quello che c’è stato, con una stima e una messa a fuoco storica del lavoro delle generazioni che hanno operato a partire dalla fine degli anni ’70 (la mia generazione) periodo rimasto nell’indistinto (come se la storia fosse finita con l’Arte Povera). Spero in mostre ed eventi che raccontino questa analisi, rintracciando posizioni e linee di lavoro, con artisti e generazioni a confronto. Voglio dire che solo in una prospettiva storica si potrà avviare un cambiamento, uscendo dall’indistinto e quindi dal marasma. Ogni artista preso per sé solo, come se fosse nato sotto a un cavolo, rivela un’incompiutezza.
Altrimenti rimarrà quello che Barnett Newmann disse più o meno con queste parole “Un artista dipinge per avere qualcosa da guardare, così come uno scrittore scrive per avere qualcosa da leggere”.
Rimarranno individui, isolati nei loro soliloqui, a fronte del vocìo di un marasma culturale, esistente, ma senza forza vitale, ininfluente, “L’Innominabile attuale” (titolo di un libro di Roberto Calasso).
Quello che da un po’ di tempo vivo e che la quarantena ha rafforzato è la consapevolezza della incomunicabilità, l’incomunicabilità è un ininterrotto invio di informazioni cose da ascoltare, da vedere e cose da leggere (come del resto anche questa).
Allora si lavora in uno spazio confinato, non sai chi sia il tuo interlocutore, su quali sensibilità, esperienze, cultura si possa instaurare un dialogo.
Culture, cultura, culture…non esistono più, sono saltate tutte, il mondo è un contenitore, un pentolone di varie verdure e ingredienti a pezzetti dentro a un liquido, un pentolone di gente e cose, alcune di queste vengono chiamate arte.
Per quel che mi riguarda cerco di proseguire nell’alimentare quella che Brodsky definisce, “la propria civiltà personale”, a ognuno la “propria civiltà personale”.
Quello a cui tengo, e che per me costituisce una forza vitale, è la consapevolezza di conservare dentro di me una civiltà dell’arte e del pensiero, e so che per poterla mantenere viva e mantenermi viva, devo alimentarla con il mio lavoro, indipendentemente da tutto.
Allora questo stato di isolamento mi porta a pensare a opere ermetiche, probabilmente empatiche solo rispetto ad alcuni individui, anche al di fuori di qualsiasi preparazione in qualsivoglia ambito “culturale”, solo persone che fatalmente condividono il sentimento di qualcosa.
E un sentimento che affiora in me è il senso della potenzialità interiore associata a un disposizione d’azzardo. Affiora il suono di una voce che fuoriesce da un corpo in un luogo sospeso.
Ciò che di nuovo può nascere ora, nasce e si forma in una dimensione individuale/interiore, questo non vuol dire di nuovo soggettivismo, al contrario indica una condizione che, per poter generare, deve essere energia interiore, con una carica di cellule riproduttive e di atomi di memoria.
Durante il periodo di 40ena ho abbozzato diverse idee di lavoro, intanto ti posso mostrare il disegno per #DaiUnSegno, realizzato usando un gessetto colorato con una metodologia particolare. L’immagine deriva da un’azione: dal gesto dell’infinito, che, ripetuto, ad un certo punto si modifica in una sorta di ombra blu, un’ombra che richiama un volto, l’ombra è intercettata da movimenti bianchi, che io vedo come suoni di una voce (da cui il titolo Soliloquio).
Poi c’è un altro piccolo lavoro (tondo da 35 cm) ricavato da una serie di riprese fotografiche che avevo realizzato un paio di anni fa per un progetto per la rivista BAU. Una di queste è stampata su un tondo di plexiglass molto sottile, riproduce l’area della parte centrale di “Acromo” (1989), un cuscino da notte con il foro nel centro della misura del mio dito indice, in prossimità del buco c’è il simbolo della costellazione della Lira (soggetto da me usato in un po’ di lavori) visto da una prospettiva che scorcia, per cui i cerchi bianchi sembrano emessi dal buco nero, inoltre ci sono tracce verdi che percorrono la superficie, come riflessi del percorso di una linea dentro uno spazio invisibile che ci sta attorno.
®Luisa Protti, marzo-maggio 2020
Marzo maggio 2020, testo inviato a Giacinto Di Pietrantonio per l’invito a un progetto relativo al periodo di quarantena
(progetto successivamente non realizzato).
testo scritto per il progetto di una mostra e un catalogo promossi dall’accademia di Brera per il cinquecentenario di Leonardo (eventi rinviati a causa del Coronavirus con data da ridefinire).
Successivamente pubblicato in “LEONARDO DA VINCI e l’Accademia di Brera”, a cura di Paola Salvi con Anna Mariani e Valter Rosa, SILVANA editoriale, Cinisello Balsamo, Milano, 2020.
Quanto segue riassume argomenti e trae spunti dal volume Filologiae(1), pubblicato dalla Casa degli Artisti(2) nel 1983, in occasione della realizzazione dell’opera e della mostra omonima (3). A questo si sovrappongono alcuni miei ricordi e considerazioni.
Filologiae è un’opera composta da parti diverse(4) che hanno come riferimento comune condiviso esempi individuati all’interno di tutto il complesso delle Grazie: dalla Sacrestia bramantesca, all’ambiente del Cenacolo, al coro ligneo all’interno della chiesa; mentre gli affreschi di Luini in San Maurizio, costituirono un ulteriore paradigma.
Ciascun esempio faceva parte del gruppo degli elementi originali al momento della costruzione del complesso delle Grazie e venne individuato come soggetto di analisi filologica in quanto espressione di caratteri che si trasmettono nel tempo attraverso un percorso artistico che arriva fino alla contemporaneità. La premessa stava in un insieme di lavori che, a partire dal 1980, andranno a focalizzare una serie di mostre consecutive della Casa degli Artisti: Antipasti, Panca(5), Filologiae. Jole de Sanna ne spiegava così i presupposti:
[…]Abbiamo scoperto che l’arte lombarda esiste in uno svolgimento collegato attraverso il tempo, come un campo di forme comunicanti. Attraverso il tempo vuol dire prima e dopo Leonardo, prima e dopo Caravaggio, prima e dopo Medardo Rosso, prima e dopo Fontana, cioè continuo. La scoperta non è di scuola, cioè collegata con il luogo o con tecniche, ma è perché, per mezzo di questi artisti noi riusciamo a ragionare su una definizione dell’arte che ci serva da sottofondo.[…].(6)
L’argomento mi permette e mi spinge a cercare di illuminare, e mi piacerebbe fosse con un fascio di luce potente, il senso, l’importanza e la precocità, di alcune idee nate alla Casa degli Artisti a partire dai primi anni’80. Filologiae si colloca in un momento in cui si rilancia l’idea della continuità storica (Momento 2, 1981-1983)(7), a seguito di Aptico, il senso della scultura (1976)(8); parallelamente si promuove l’idea di un lavoro d’equipe, denominato Cantiere, come le antiche maestranze medievali.
Quello che a me rimaneva addosso dall’adolescenza, come un dubbio, un’ombra persistente, riguardava il senso di “cultura”, ed è la domanda che feci a Fabro in Regole d’Arte(9), all’epoca dei dialoghi di Regole, avevo 18 anni: “Vorrei capire cosa di fatto riesco ad apprendere da quello che leggo, vedo, ecc. e come posso adoperarlo nel mio lavoro”, e Fabro mi rispose con la metafora dell’artista in formazione che è come uno che si tuffa nell’acqua e vede le cose di luce riflessa, riflessa da quello che c’è in giro, ma a un certo punto trova la direzione scoprendo la fonte della luce…e riemerge. Cioè non basta conoscere e scoprire cose diverse e sorprendenti, occorre trovare la chiave che le apre e che introduce al segreto dei loro processi generativi.
Qual è il percorso che permette di avvicinarsi a qualcosa, scongiurando quello di cui lo stesso Leonardo ha orrore “Fuggi quello studio” dice Leonardo “del quale la risultante opera more insieme col l’operante d’essa”(10).
Afferma Luciano Fabro:
[…]Comunque, sarebbe il caso di dire qualcosa ancora su questo significato della filologia. Perché, con questo modo di lavorare spostiamo quella che è l’attenzione critica, operativa, da quello che era il termine creatività, al termine filologia. Cioè tutto lo sforzo, o l’ambizione, le aspettative non avvengono sul fatto di dire “ecco, noi vogliamo riuscire a creare qualcosa di nuovo”. Piuttosto, lasciando da parte il problema della novità, cerchiamo di vedere con quali strumenti si può ottenere che ogni parola, ogni lavoro che si fa risulti nuovo; e questo noi lo otteniamo da un lavoro filologico mi sembra. Che oltretutto non è neanche una novità ma, analizzando un pochino, stranamente stiamo rendendoci conto che è un problema dell’arte moderna, che quando non funziona diventa eclettismo, o diventa revival…Però quando funziona rimane all’interno della filologia. E non solo è un fenomeno dell’arte, diciamo figurativa, ma vale per la letteratura e vale persino per il pensiero. Tant’è vero che tanto del pensiero moderno noi lo dobbiamo ai filologi, vedi il caso di Nietzsche e di gente che si propone non come letterato o come filosofo, ma proprio come filologo. Oltre al caso di Nietzsche abbiamo anche quello di Pasolini. Se uno avesse chiesto a Pasolini che mestiere fai, non avrebbe risposto faccio il cineasta, o faccio il poeta o faccio lo scrittore, ma avrebbe detto “io sono un filologo(11).
Fabro non intende tanto il filologo professionista, come potrebbe essere un dantista, ma intende la filologia “[…]Una funzione del produrre. Per noi il filologo è Dante, non i dantisti. Noi, d’accordo con Tizio, Caio, Sempronio, vogliamo riportare il termine filologia al termine operativo”(11).
Filologico è un atteggiamento verso la realtà in generale, concerne sì lo studio e l’analisi ma tesi alla scoperta degli elementi generativi, degli snodi e degli impulsi ricreativi.
Nel 1985, due anni dopo Filologiae, venne redatto il manifesto ETICO(12) che sintetizzava tutta l’esperienza di quegli anni, e il cui testo venne da me, in seguito, in più di un’occasione pubblica diffuso.(13) Cosa ci è vicino e cosa ci è lontano? Leonardo scrive:
“Il giudizio nostro non giudica le cose fatte in varie distanzie di tempo nelle debite e proprie lor distanzie, perché molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente, e molte cose vicine parranno antique, insieme con l’antiquita’ della nostra gioventù”(14).
Ricordo che nello stesso periodo della visita a S. Maria delle Grazie, andammo a visitare la Sala delle Asse di Leonardo al Castello Sforzesco.
In quell’affresco emergeva l’idea di un luogo immaginato con parti che non delineano uno spazio in maniera geometrica e netta, cioè con volumi architettonici in prospettiva, ecc., ma con elementi che vanno a creare un luogo d’aria e di luce, con un senso di traspirazione e dilatazione, attraverso motivi del mondo vegetale: i rami frondosi che dai tronchi degli alberi si dipartono dai lati incurvandosi e intrecciandosi sulla volta. Poi, nel dipinto della volta leonardesca della Sacrestia delle Grazie, quei caratteri erano ancora più evidenti, anche per il nuovo, strano soggetto che aveva sostituito gli alberi: i cesti con i fascioni e i nodi di corde intrecciate. Ricorda Fabro:
[…] Il fatto è che noi quando siamo entrati e abbiamo visto per la prima volta questo soffitto, siamo rimasti schoccati, incantati, turbati, dal fatto che era un soffitto e che non era un soffitto. Cioè s’era trovato un modo per spalancare una volta.
Se noi ci guardiamo in giro da tutte le parti, tutti i soffitti che abbiamo visto, vediamo che coprivano questo spazio, o lo dipingevano oppure se lo volevano dissimulare sotto altri aspetti continuavano a dipingere una muratura, quasi ad elevare la parte muraria dell’edificio, raffigurando prospettive ecc.. Poi, tutti conoscevamo il soffitto della sala delle Asse, cioè l’intreccio di rami di alberi ecc., e quello, sì, interessante, interessantissimo, basilare, quello che volete, però è ancora raffigurativo, cioè raffigura un’immagine che noi abbiamo, non so, all’interno di un giardino o all’interno di un bosco. Mentre in questo caso noi ci siamo trovati di fronte a una architettura inesistente, improbabile, illogica, e nello stesso tempo molto chiara nel suo indirizzo logico. Perché l’indirizzo logico di questa architettura, era quello di creare un cielo e di aumentarlo rendendo leggera, anche con materiali leggeri, l’architettura, cioè creare un’architettura in termini di leggerezza, perfino usando dei materiali che tengono questo senso di leggerezza e improbabilità, quasi strutturale. Come se uno, invece di mettere la tovaglia di pizzo sul tavolo, la mettesse a copertura di una casa. Non ti pare che è questo lo choc di questo soffitto? Per cui noi ci siamo trovati ad affrontare una tovaglia gettata per aria, che non simula…[…].(15)
Per quel che mi riguarda, avevo già ritrovato nei miei lavori, disegnando il Coccio, il Pizzo e l’Autoritratto, oppure realizzando Festa, il Materasso… una tendenza verso dimensioni aeree, di superfici che si gonfiano, di equilibri instabili, di plasticità senza peso, di concatenazioni che sfumano.
Fu Fabro a indicare il soggetto più attinente a ciascuno di noi(16).
Poi ci furono diversi momenti di verifica e dialogo sui risultati che man mano ciascuno veniva a ricavare, e tutti contribuimmo al lavoro di tutti; come anche in Antipasti e Panca, Filologiae si poneva nello spirito di un lavoro di ricerca che coinvolgeva l’attività comune, con l’ambizione di ricreare gruppi di persone, preparate culturalmente, abili ad allestire opere e mostre anche di ampio campo, sia dal punto di vista di strumenti tecnici sia culturali.
Si doveva passare dall’immagine dipinta, intarsiata, modellata, a una nuova immagine autonoma, autoportante, con un’altra corporeità.
Il trasferimento dall’originale non è stato di tipo fotografico, di copia, di calco, ma, per lo più, di studio attraverso il disegno, ciò aveva permesso di indagare le forme e di ricostruirle ritrovando dimensioni, proporzioni, armonie. Lo studio ha riguardato anche modificazioni delle parti in base alla nuova prospettiva che si veniva a determinare.
Il cesto con i quattro fascioni in giunco, quattro grandi “braccia” che da esso si aprivano tendendosi verso la volta, costituì il soggetto portante, baricentro visivo di tutto l’insieme. Nell’intento di trovare un materiale flessibile che mantenesse la tensione dell’intreccio, dalla corda, come nell’esempio dipinto, materiale utilizzato nei primi tentativi, si arrivò al giunco. Così spiega Jole de Sanna:
[…] Siccome questo era prettamente, in quell’epoca, un periodo di sperimentazione sui dati originali, quelli romani ecc., a mio avviso lì facevano operazioni identiche a quelle che facciamo noi. Per esempio: il motivo originale delle nostre trecce è l’intreccio in vimini, materiale che abbiamo scoperto, come dicevo ad Angelo, anche studiando i primordi dell’architettura comacina. Allora, questi hanno tentato, forse, anche loro operazioni di rilevazione e di rivelazione tramite il trasferimento dell’elemento.
Questi elementi in trecce, che, normalmente, bordano le aperture, gli ingressi, i vani, i portali, ecc. vengono trasferiti in volta, e hanno sostituito l’elemento corda all’elemento marmo scolpito a giunco. Esattamente come stiamo facendo noi. […].(17)
L’utilizzo, nell’affresco, della corda dipinta anziché del giunco, era dettato probabilmente dall’esigenza di ottenere un effetto di plasticità essendo il soggetto dipinto e non scolpito. Attorno ai fascioni vi erano i nodi/pizzi, rivestiti di caolino e segnati da una linea nera che vi si avvitava, avevano la funzione di connettere visivamente il fascione con l’aria intorno. Per realizzarli avevamo esaminato l’esempio nell’affresco e diversi modelli di nodi da marinaio, sapevamo che Leonardo studiava le forme dei nodi analizzando i tipi di nodi da marinaio (all’epoca Milano era ancora la città dei navigli).
Il perno su cui poggiava Filologiae era leggermente spostato, per cui i piani erano un po’ inclinati rispetto alle pareti della stanza, con un baricentro libero virtualmente ruotante. Quando, collocata l’opera nella Sacrestia, con tutte le soluzioni e precauzioni affinché non gravasse sulla struttura architettonica, chiamammo padre Angelo Caccin (il priore domenicano di Santa Maria delle Grazie che ci aveva concesso di realizzare tutto il lavoro), egli rimase perplesso, non identificava gli elementi originali: si trovò davanti un’immagine inedita, con una insolita corporeità, al di là della riconoscibilità fotografica. In seguito rimontammo l’opera a Massafra, in un grande salone del piano settecentesco di palazzo de Carlo, palazzo di cui la stessa de Sanna promosse, dal 1978, il restauro, e in cui stabilì la propria dimora accanto a quella di Milano. Non riuscimmo però a montarla in maniera risolta, non trovammo il giusto baricentro e l’insieme appariva un po’ decadente. Ora forse Filologiae è smontata e conservata in qualche grotta all’interno del giardino. Ma è anche dentro di me, metabolizzata e trasformata in enzimi, vitamine, proteine, anticorpi, eccetera.
Ciò che però rimane in evidenza è sempre la stessa questione: la condizione per non ripetere ciò che è già stato fatto e per non adeguarsi a un fare e sentire indotto dalla contingenza di un’epoca, passa per la capacità di rinnovare all’interno di una lingua:
“[…]La tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarmene deve conquistarla con grande fatica. Essa esige che si abbia, anzitutto, un buon senso storico, cosa che è quasi indispensabile per chiunque voglia continuare a fare il poeta dopo i venticinque anni[…] Nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo, ha un significato compiuto. […] Bisogna in ogni caso insistere sul fatto che il poeta deve sviluppare o acquisire la coscienza del passato e continuare a svilupparla per tutta la sua carriera.[…] Ma la differenza tra passato e presente sta in questo: che il presente, quando sia consapevolezza, è consapevolezza del passato in un senso e in una misura mai raggiunta, come consapevolezza di sé, del passato. […] Bisogna in ogni caso insistere sul fatto che il poeta deve sviluppare o acquisire la coscienza del passato e continuare a svilupparla per tutta la sua carriera. Ciò facendo, il poeta procede a una continua rinuncia al proprio essere presente, in cambio di qualcosa di più prezioso. La carriera di un artista è un continuo auto-sacrificio, una continua estinzione della personalità.
Resta da definire questo processo di spersonalizzazione e il suo rapporto con la coscienza di appartenere a una tradizione. In questo processo di spersonalizzazione si può dire che l’arte si avvicina alla condizione della scienza […].”(18)
Note
(1) Casa degli Artisti-Milano,1983.
(2) Casa degli Artisti, Milano 1978
(3) Filologiae, dicembre 1983.
(4) Vedi BIBLIOGRAFIA GENERALE p.
(5) Antipasti, Milano, 1981. Panca, Biennale di Venezia, 1982.
(6) Casa degli Artisti-Milano, Filologiae, 1983, p.5.
(7) Trombetta, 2003, p. 20 e seguenti.
(8) de Sanna,1976.
(9) Fabro, p. 42, 1980.
(10) Bramly,1990, p.105.
(11) Casa degli Artisti-Milano, Filologiae, 1983, p. 9, 10.
(12) Almeoni, Buonaguro, Crivelli, Ghirardani, Proto, Protti, Quartana, Trovato, 1985.
(13) Protti, 1990, 1992.
(14) Bramly, 1990, p.114.
(15) Casa degli Artisti-Milano, Filologiae, 1983, p. 14.
(16) Vedi BIBLIOGRAFIA GENERALE p.
(17) Casa degli Artisti-Milano, Filologiae, 1983, p.14,16.
(18) Eliot, Londra, 1922, pag. 69, 70.
(19) Leonardo, 1890, p.5.
Bibliografia generale
(1) Casa degli Artisti, Filologiae, Per l’arte 2, Milano 1983, ed. Casa degli Artisti-Milano.
(2) La Casa degli Artisti è stata fondata a Milano nel 1978 da Luciano Fabro, Jole de Sanna, Hidetoshi Nagasawa, come luogo di conversazioni, ricerche e sviluppi dell’arte.
(3) Filologiae, a cura della Casa degli Artisti, opera a più mani realizzata da: Piero Almeoni, Enzo Buonaguro, Matteo Donati, Raffaele Proto, Luisa Protti, Luca Quartana, Adriano Trovato, Sacrestia Bramantesca di S. Maria delle Grazie, Milano, dicembre 1983.
(4) Parti che compongono l’opera: un cesto con quattro fascioni in giunco, una cornice di legno tra cui è interposta su un lato una fascia con un intreccio geometrico a gessetto su carta da pacco e, nel lato opposto, una serie di “paesaggi” a tempera su supporti di carta ai cui bordi si sovrappongono “trine” in ottone, il tutto poggia su un perno ed è appeso alle travi sotto la volta.
(5) Antipasti, mostra a cura della Casa degli Artisti, con opere di: Rolando Chiodi, Fabrizio Crivelli, Mariella Ghirardani, Raffaele Proto, Luisa Protti, Luca Quartana, Adriano Trovato, in occasione della mostra I materiali dell’Arte “processi tecnici e formativi dell’immagine”, Castello Sforzesco, Sala Viscontea, Milano, 1981. Panca, a cura della Casa degli Artisti, opera a più mani realizzata da: P. Almeoni, R. Chiodi, F. Crivelli, M. Ghirardani, R. Proto, L. Protti, L. Quartana, A. Trovato, Magazzini del sale, sezione Aperto ’82, a cura di Tommaso Trini, Biennale di Venezia.
(6) Casa degli Artisti, Filologiae, Per l’Arte 2, Milano 1983, ed. Casa degli Artisti- Milano.
(7) Luciana Trombetta, Casa degli Artisti-Cronistoria dal 1978 al 2003, Per l’arte 19, p.20, Verona 2003, ed. Casa degli Artisti-Milano.
(8) Jole de Sanna, Aptico il senso della Scultura, Crusinallo 1976, Ed. Alessid’après.
(9) Luciano Fabro, REGOLE D’ARTE, Per l’arte 3, Milano 1980, epi editoriale periodici italiani.
(10) Serge Bramly, Leonardo da Vinci, Parigi 1988, trad. it. Milano 1990, volume I.
(11) Casa degli Artisti, Filologiae, Per l’arte 2, Milano 1983, ed. Casa degli Artisti-Milano.
(12) P. Almeoni, E. Buonaguro, F. Crivelli, M. Ghirardani, R. Proto, L. Protti, L. Quartana, A. Trovato, ETICO, Milano, novembre 1985.
(13) Da Etico, testo pubblicato sull’invito per la mostra n.1 n.3 n.4 (Scatole) al Rotterdam Art Space, Rotterdam, 9 novembre 1990 e nella monografia Luisa Protti, a cura di Jole de Sanna, edizioni Scheiwiller, Milano, 1992. “L’Arte non accoglie richieste, ma detta le proprie: avere il senso della possibilità: le cose possono essere immaginate nuovamente. L’opera è soggetto. Idea e immagine vi sono uniti, eludendo la presunzione dell’effetto e il qualunquismo della messa in scena. Guardare filologicamente verso le opere che precedono: lo sguardo filologico è attitudine dell’artista come antidoto al disimpegno della citazione. Le opere trasferiscono abitudini etiche da artista ad artista. Non si possono adoperare le cose come si ‘sente’, ma come si deve e si può. Questo è poter trattare la realtà come invenzione: ad una generazione di immagini ne succede una nuova.
(14) Serge Bramly, Leonardo da Vinci, Parigi 1988, trad. it. Milano 1990, volume I.
(15) Casa degli Artisti, Filologiae, Per l’arte 2, Milano 1983, ed. Casa degli Artisti-Milano.
(16) Riferimenti per l’opera di ciascun autore: Luisa Protti insieme ad Adriano Trovato, l’affresco della volta con il cesto e i fascioni; Luca Quartana, la cornice in alto alla base della volta; Piero Almeoni e Matteo Donati i motivi vegetali delle le tarsie nei seggi lignei, tutti questi soggetti si trovavano all’interno della Sacrestia Bramantesca; Enzo Buonaguro, il motivo dell’intreccio nel coro all’interno della chiesa; Raffaele Proto, i paesaggi di Bernardino Luini nella chiesa di S. Maurizio).
(17) Casa degli Artisti, Filologiae, Per l’arte 2, Milano, 1983, ed. Casa degli Artisti- Milano.
(18) Thomas Eliot, Tradizione e talento individuale, da il bosco sacro, Saggi su poesia e critica, Londra 1922, saggio citato da Duchamp nell’ L’atto creativo.
(19) Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, Roma 1890, Unione Cooperativa, Editrice.
Filologiae… “e come la pittura è inimitabile, però è scienza”, gennaio 2020, testo scritto per il progetto di una mostra e un catalogo promossi dall’accademia di Brera per il cinquecentenario di Leonardo (eventi rinviati a causa del Coronavirus con data da ridefinire)
Intervista pubblicata nel catalogo della mostra personale Soffiando sull’inaccessibile, a cura di Bruno Corà, spazio PAePA e comunicazione, Milano settembre 2018.
testo per il catalogo Luciano Fabro Disegno In-Opera, a cura di Giacinto di Pietrantonio, con la collaborazione di Silvia Fabro, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano, settembre 2013.
testi per MOZART n.2, rivista a cura di Bruno Corà, Perugia, novembre 2012.
testo per il catalogo della mostra Luciano Fabro, 100 disegni, a cura di Dieter Schwarz, Kunstmuseum, Winterthur, 2013.
Le serie di disegni che Luciano Fabro ha iniziato credo a partire dal 1992, in occasione del Natale, di Capodanno o della Befana, danno vita a un ciclo e a una sorta di rito che si è rinnovato annualmente scandendo un arco di tempo di quindici anni. Essi mi appaiono nell’insieme come un autoritratto, da cui trapela, rapida e leggera, una maniera di essere, di vedere, di pensare, ma in cui i tratti visibili filtrano un interno che rimane celato.
Il segno è simile alla sua calligrafia, si sente il temperamento. Ogni disegno è come una frase figurata e la frase è essa stessa disegno, in cui il segno, i segni, diventano “cose” e così le scritte, una frase, un nome, diventano “cose animate”, a volte con una componente crittografica o simili a ideogrammi, senza un significato simbolico, ma immagini con una funzione in quel dato momento: incitare, ricaricare, prendere atto, ironizzare su qualcosa, focalizzare la situazione: “in principio”, “esistere insistere”, “strano, comincio così”, “daccapo alla cieca”, “gira rigira”, “nessun goda né di testa né di coda?”, “dindolo, dondolo”…
C’è una corrispondenza tra testo e disegno che attiva il pensiero contemporaneamente su ciò che è scritto e ciò che si vede, la frase e il disegno si configurano, mantenendo una riserva di senso e di significato. Tutti i disegni sono realizzati con una gestualità libera, naturale, semplice, che richiama la tecnica pittorica “a un colpo solo”, quella da lui usata per le Erbe e che riflette molto bene l’indole di Luciano Fabro.
Ogni disegno ha una presenza atmosferica e spaziale. Come le opere, i disegni di Luciano Fabro sono interlocutori, toccano le relazioni con l’essere umano, in uno scambievole dialogo, e ogni volta puoi scoprirvi qualcosa.
Sono sempre contraddistinti da segni animati, mai inerti, come tracce che veicolano un pensiero vivificante, su una superficie percepita come uno spazio profondo, illimitato. Le carte sono sempre diverse: liscia, ruvida, ricercata, riciclata, millimetrata… e così gli strumenti per disegnare, carboncini, pastelli, pennelli, a volte è difficile capire esattamente la tecnica adoperata, che è sempre semplice ma con un effetto complesso e di finezza, forse Luciano Fabro usava quel che aveva lì a portata di mano, ma la precisione dell’effetto, fa pensare a una scelta anticipata.
I disegni di Luciano Fabro sono pensieri rivolti a una persona o a più persone, alle persone. Costituiscono una comunicazione diretta, proprio come un parlato, conservano l’ironia della sua conversazione. In “quasi ci siamo” (Capodanno ’97), la dimensione del disegno sul piccolo foglio trasparente millimetrato, fa percepire un’immensa linea rossa che, da un nucleo di linee scoppiettanti, sale verso l’alto e, nel punto in cui sembra raggiungere la massima estensione, si incurva frantumandosi ed emettendo frammenti che mi appaiono come tracce di un volto gioioso.
Dicevo che Fabro conferisce al disegno delle funzioni diverse, alcune è come se realizzassero un messaggio criptico, come una combinazione di elementi che deve essere decifrata; così “in principio” (1-1-2007), solo più tardi ho “visto” il senso reale di questo di-segno: una traccia un po’ inclinata di un liquido scuro che sembra schizzato o fuoriuscito dal taglio netto che l’attraversa.
Fabro non concepiva l’arte come veicolo di “inerte contemplazione”, ma sempre con un aspetto interlocutorio e coinvolgente, non sopportava la fissità del pensiero, l’assenza di anche un briciolo di idea che ridesse freschezza e senso a qualcosa. L’interlocutore di Fabro può essere l’osservatore acuto, il giocatore, non lo spettatore, ma colui che, come lui, “gioca pesante”. C’è sempre nelle opere di Luciano Fabro un lato affascinante, suggestivo, ironico, giocoso, di leggerezza, ma sono tutti elementi che diventano veicolo di complessità e sembrano segnati da una necessità o ragione cosmica, così i disegni.
I disegni registrano lo stato del momento e vi aprono spiragli, a un certo punto, a partire da “si potrebbe supporre(…)”(I-I-02) sembrano collegarsi: “esistere insistere”(Natale 2003), “quale equilibrio”(Natale 2004), “daccapo alla cieca”(XII – 2005), “in principio”(I-I-2007). “si potrebbe supporre(…)” è un testo scritto a pastello su un foglio da disegno di cui occupa interamente il formato. Attraverso una riflessione su ciò che darebbe senso al vivere di un individuo, riemergono questioni su cui Fabro è più volte tornato: identità e senso come condizioni di vita, il senso della vita starebbe nello scoprirlo (diverso per ognuno) e la ragione di continuare a vivere nel portarlo a compimento, questo darebbe senso anche alla morte; la lettura di questo testo, che sembra essere stato scritto di getto, mi provoca un forte turbamento, ma la sua incisività sta nel fatto che è un incitamento, rileggerlo mi permette di rimettermi al lavoro. Come è possibile oggi dare corpo a qualcosa che abbia vita e spessore? In“quale equilibrio” due linee, una di grafite nera, l’altra rossa, tracciano due “steli” che si congiungono in alto divaricandosi alla base, un po’ come i gambi delle coppie di ciliegie, il gambo grigio sale da una strisciata di colore blu con un effetto di materia morbida fatta di filamenti. Il gambo rosso da una strisciata rossa, di un colore acceso che si addensa, ma con un effetto di materia sfocata. I due gambi si premono in alto puntellandosi sulla striscia rossa e su quella blu. “quale equilibrio” è senza il punto di domanda, non è una domanda, è già una risposta: vale solo la posizione che permette di trovare l’equilibrio. “daccapo alla cieca” e “in principio” indicano il primo un modo di procedere, l’altro una condizione inevitabile. “daccapo alla cieca” disegna una traccia realizzata a occhi chiusi, un percorso fatto al buio, interno alla persona, mentale, fantasioso; segni interrotti, a tratti come in sfaldamento, premuti o leggeri, come un palpare, attraverso la linea, una potenziale immagine; c’è un muoversi del tratto che si aggrega e sfalda, una sorta di balbettio che proviene dall’interno. Ricordare e riconoscere, tastando con la traccia della matita. Il Veggente è cieco e“veggente” è colui che vede (il profeta); vedere è riconoscere la forma interna dell’arte; nel buio della scatola cranica l’orizzonte può diventare smisurato, si possono scorgere le sfumature più impercettibili, sentirle, toccarle… è come un’espansione dei sensi e delle facoltà verso l’interno, e, come una corrente, questo si trasmette al gesto della mano che traccia i segni sulla carta, e in questo gesto si traslano tutte le facoltà fuse insieme: sentire, immaginare, palpare, riconoscere… Ha scritto Mandel’stam: “(…) distendere la vista come un guanto di camoscio (…)”. “daccapo” indica un modo di procedere costitutivo al fare arte, per un artista è un’attitudine, nella storia dell’arte è ciò che determina la continuità. “In principio” è ancora prima di daccapo, “in principio” è una condizione che sta prima dell’inizio, prima del primo segno di vita. “in principio”esce da tutto e ci pone nel nulla, è la disposizione alla vita a partire dall’assenza di tutto. Una condizione, questa, che si può definire, seguendo il pensiero di Luciano Fabro, “responsabilità iniziale, ontologica” da cui possa rinascere l’impulso a dare senso, passione, sapore, colore alle cose per ricreare un mondo in cui sia di nuovo possibile “ritrovare favole sublimi” (G.B.Vico).
®Luisa Protti settembre 2012
Disegno emana frase, frase emana disegno… immagini parlate, settembre 2012, testo per il catalogo della mostra Luciano Fabro, 100 disegni, a cura di Dieter Schwarz, Kunstmuseum, Winterthur, 2013.
pubblicata nel comunicato stampa per la mostra Questioni di Lingua (con Claudio Citterio e Diego Morandini) a cura di A. von Furstenberg, Art For The World Europa, Milano 30 novembre 2009.
Adelina von Furstenberg: nel libro “Forma”, ed. costa & nolan, 1997, Jole de Sanna cita alla pagina 247: “Una mostra, oggi, è un’improvvisazione. Quali sono i mezzi dell’improvvisazione? Velocità, deviazione, sorpresa, rapidità di pensiero associativo. Una mostra è modificazione di una casualità. (Intendo per casualità forme che si trovano disposte in modo sparpagliato a cui l’artista ha già dato identità formale): l’artista ha di fronte questa casualità. La muove fino al crearsi di una tensione, di una dilatazione, di una distensione, di una espansione cioè di una dimensione. Questo avviene per spostamenti, perciò quello che conta è la posizione dei “pezzi”. La posizione dei pezzi in ragione di che cosa? Di qualcosa che non centra con la continuità formale, qualcosa che sia deviazione, sorpresa, velocità. Colpi di luce e d’ombra in una festa o in una battaglia (Protti 1993).”
A più di dieci anni di distanza, in un mondo cosi radicalmente cambiato, come definireste una mostra?
Luisa Protti: un cambiamento non equivale all’invenzione di qualcosa ma è la manifestazione di un processo che può essere anche in negativo. Il testo che tu hai citato era in relazione all’opera che presentavo alla Biennale di Venezia del ‘93, che è stata l’ultima Biennale dialettica, in un momento in cui era già delineata una prospettiva culturale precisa, rappresentata, a quel tempo, dal post-human, cioè iniziava il reality, la messa in scena della realtà, lo spettacolo della realtà, che doveva impressionare. In quel testo esprimo l’insofferenza per quel cliché, per un certo tipo di confezione, perciò parlo di improvvisazione e di tutto il resto e pongo l’accento su una situazione fisica reale, vitale, dinamica.
Una mostra oggi? Rispetto ad allora credo che siano ormai evidenti le conseguenze negative che quella politica culturale ha prodotto. Perciò una mostra dovrebbe essere un segno che indica un’altra direzione, come prospettiva di pensiero e come fisionomia di lavoro. Una mostra, ovviamente presenta delle opere, e un’opera è l’invenzione di una realtà, non è l’espressione “del mondo che c’è”, cioè di una situazione già confezionata, che però si vuole far passare come un momento di “creatività senza confini”.
Oggi emerge la necessità di fornire delle soluzioni alla debolezza culturale italiana (e non solo), in realtà delle indicazioni sono già state date, non si può dimenticare il discorso che Fabro fece proprio qui a Milano, tre anni fa, allo Spazio Oberdan, discorso che non ha avuto risposte ed è tutt’ora inedito. Questa mostra è l’opportunità di ricordarlo per tornare a rifletterci. Condizione della Storia dice Fabro sono i Maestri, poichè la Storia è la trasmissione della lingua da Maestro a Maestro. Al di fuori della Storia ci sta l’informazione, dove i linguaggi si attraversano, si moltiplicano, riproducendo persistentemente il medesimo “sistema culturale”, che perdura ormai da più di due decenni.
Pubblicata nel comunicato stampa per la mostra Questioni di Lingua (con Claudio Citterio e Diego Morandini)
a cura di A. von Furstenberg, Art For The World Europa, Milano, 30 novembre 2009.
testo pubblicato in Cronistoria seconda parte dal 2003 al 2009, a cura di Giulia Solero, per l’Arte 21, edizioni Casa degli Artisti, Milano 2009.
“Ci si accosta a quanto viene studiato con la convinzione che siano cose note: ma “il sapere insuperbisce e l’amore istruisce” (proverbio russo).
“Per la gente che rischia sul piacere” è il titolo di una conferenza di Luciano Fabro (Beeldende Kunst, Denhaag, 1990). Sono proprio pochi quelli che lo fanno e oggi quasi più nessuno. Ma è nella testimonianza di chi l’ha fatto che ritrovo i veri problemi, le questioni “vitali” che occorre affrontare. La perdita della sapienza umanistica, l’annullamento della storia, la nullificazione dell’arte e del ruolo dell’artista, la sterilità e l’impotenza del sistema “culturale” attuale, l a provincializzazione dell’Italia, erano prospettive che qualcuno da tempo aveva indicato. Esse sono oggi drammaticamente evidenti.
Ad esempio, si è tornati a parlare degli anni ’70, ma nei discorsi che sento e nelle mostre che vedo, capisco che non si vuole ancora esporre con chiarezza i fatti e le ragioni che li hanno determinati, non si vuole fare la storia. Un elenco di nomi e fatti non è storia, la storia è nelle ragioni, nei legami tra alcuni eventi ed i loro risultati. Storia è l’analisi e la spiegazione delle responsabilità di ciò che è successo in senso positivo o negativo. La censura contemporanea consiste nel far si che si possa dire tutto, citare tutto, essere a favore ed essere contro, senza che tutto questo cambi alcunchè. Pasolini che viene ricordato, ma non più di tanto, è in realtà censurato, perché ricordarlo insieme ad altre mille cose vuol dire disattivare l’efficacia del suo pensiero. Eppure era l’unico ad avere intuito la storia degli anni ’70, e i suoi risvolti, prima che succedesse. I fatti gli hanno dato ragione. Sarebbe utile tornare a riflettere sul pensiero di coloro che hanno preavvertito le conseguenze negative di un tipo di atteggiamento ed hanno insistito su altro. E visto che la situazione è sempre più insopportabile, visto che regnano la confusione e l’ignoranza come forma di censura e di potere e l’adeguamento ha sostituito la riflessione e la capacità di giudizio, voglio recuperare l’eredità del pensiero che ha contribuito a chiarire i fatti, che ha arricchito il patrimonio umanistico, e che ha dato buoni suggerimenti.
Riflettere su quello che costituisce una testimonianza storica “reale” dello svolgimento dei fatti. Fare una stima della storia.
E porto anche la mia testimonianza che parte proprio dagli anni ’70.
La mia esperienza nell’arte inizia negli anni ’70, anni in cui frequento il liceo e l’Accademia, mentre arrivo allo Casa degli Artisti nel 1978, avevo 17 anni.
Negli anni ’70 le giovani generazioni vivono l’esperienza dello sfascio culturale di tutto, si interrompe l’insegnamento nelle scuole e, mentre i giovani diventano sempre più analfabeti, si diffondono droghe pesanti in gran quantità. In concomitanza si afferma una sottocultura che esalta l’individualismo e la libera espressione spacciandola come indice di originalità e di personalità, la parola “creatività” è sulla bocca di tutti, legittima qualsiasi tipo di espressione, dal trance nirvanico alle manifestazioni più violente, fornisce un’alibi “culturale” per atteggiamenti disinibiti e pretestuosi verso la realtà, verso la storia, verso il lavoro. In un momento in cui tutti dichiarano di lottare in nome della libertà da molte cose, e migliaia di giovani rimangono indelebilmente segnati dall’eroina, nessuno pensò o si prese la briga di cercare di analizzare in modo disinteressato le cause di quello che accadeva. Nel frattempo le persone morivano, molti per le bombe o assassinati, molti altri per droga.
Pasolini dichiarava sui giornali:
“Nel 1971-72 è cominciato uno dei periodi di reazione più violenta e forse più definitivi della storia. In esso coesistono due nature: una è profonda, sostanziale e assolutamente nuova, l’altra è epidermica, contingente, vecchia. La natura profonda di questa reazione degli anni settanta è dunque irriconoscibile; la natura esteriore è invece ben riconoscibile. (…).
Questo aspetto della restaurazione (che però nel nostro contesto si presenta come termine improprio, perché in realtà niente di importante viene restaurato) è un comodo pretesto per ignorare l’altro aspetto, più profondo e reale, che sfugge alle nostre abitudini interpretative di ogni specie. Esso viene colto solo empiricamente e fenomenologicamente dai sociologi e dai biologi, che naturalmente sospendono il giudizio, oppure lo rendono ingenuamente apocalittico. La restaurazione o reazione reale cominciata nel 1971-72 (dopo l’intervallo del 1968) è in realtà una rivoluzione. Ecco perché non restaura niente e non ritorna a niente; anzi, essa tende letteralmente a cancellare il passato, coi suoi “padri”, le sue religioni, le sue ideologie e le sue forme di vita (ridotte oggi a mera sopravvivenza).
(…) È così che questi sono anni di falsa lotta, sui vecchi temi della restaurazione classica, in cui credono ancora sia i suoi portatori che i suoi oppositori. Mentre, alle spalle di tutti, la “vera” tradizione umanistica (non quella falsa dei ministeri, delle accademie, dei tribunali e delle scuole) viene distrutta dalla nuova cultura di massa e dal nuovo rapporto che la tecnologia ha istituito – con prospettive ormai secolari – tra prodotto e consumo (…).
(…) Tutti quindi fingono di non vedere (o forse non vedono realmente) qual è la vera, nuova reazione, e così tutti lottano contro la vecchia reazione che la maschera.
(…)Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…”.
Pasolini individuò i germi di una patologia che ha minato la possibilità di uno sviluppo culturale storico. Mi riferisco per esempio alla situazione attuale dell’arte, in particolare all’agonia italiana. Ha indicato le caratteristiche del linguaggio che avrebbe in seguito preso il sopravvento anche nell’arte, caratteri tutt’oggi rintracciabili nella maggior parte delle opere che si vedono in giro e che vengono additate come esempio di contemporaneità.
“(…) C’è solo un caso di espressività – ma di espressività aberrante – nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente streotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è estremamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.(…)La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte. (…)”. Come si fa a non pensare a Damien Hirst e a tutti i parenti vari, anche italiani? Cioè a tutta l’arte sociale, eccetera eccetera, che ci assilla da tempo, che si imposta proprio sull’impressione visiva del soggetto e della confezione?
“(…)Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, e già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e i nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un “nuovo valore” nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile.”
Quello che è successo per la religione sta ora arrivando a compimento nell’arte: l’arte sta estinguendosi ed è diventata oggetto folcloristico. Con il consenso o con il silenzio, o grazie al disimpegno di quasi tutti gli addetti.
La Casa degli Artisti nel corso di trent’anni ha sempre costituito un antidoto a questo sistema “culturale”. La sua storia ha tracciato un’eredità di opere e di autori che definisce una linea genealogica e una lingua artistica tutt’ora viva. Essa nasce per “ricucire” le generazioni, per riavviare il dialogo e la discussione sulle questioni dell’arte, per trovare i legami con il passato, per riconquistare l’esperienza del costruire, la capacità di distinguere le cose per la loro profondità e complessità, per il loro spessore storico. La Casa degli Artisti è l’idea di un luogo disponibile e in difesa dell’arte e del suo ruolo, è un istituto di ricerca in cui, senza i personalismi e le ambizioni da demiurgo, si lavora “per l’arte”. La base di questa ricerca è l’idea che l’opera sia un nucleo di “realtà” in cui il senso dell’interezza è l’esperienza che si produce.
Come procacciarsi il cibo spirituale se le opere e gli artisti vanno estinguendosi. Dove trovare la linfa che vitalizza? Il cordone che mi unisce alla storia che mi ha formato e per cui ho lavorato è tale ed è così ricca e complessa quella storia, che io posso avere linfa a sufficienza per molto tempo. So che le mie opere dovranno essere la memoria di questa ricchezza, comunicata al presente. Mi chi non ha a disposizione questo cibo…?
Perché il cibo non basta che ci sia, occorre avere fame, saperlo trovare e digerirlo.
®Luisa Protti, 29 gennaio 2008
Testimonianze. Contro la mistificazione ideologica, per riattivare un pensiero che è stato disattivato, 29 gennaio 2008, testo pubblicato in Cronistoria seconda parte dal 2003 al 2009, a cura di Giulia Solero, per l’Arte 21, edizioni Casa degli Artisti, Milano 2009.
testo scritto per Autunno, opera di Luciano Fabro esposta, in omaggio all’artista, alla XV Quadriennale di Roma, a cura di Chiara Bertola, Lorenzo Canova, Bruno Corà, Daniela Lancioni, Claudi Spadoni, Palazzo delle Esposizioni, 19 giugno/ 14 settembre 2008.
Servizio Civile per Autunno
Pur conoscendo che la decisione di mettere sotto l’opera di Luciano Fabro, Autunno, una base-pedana sia dettata da ragioni di statica del pavimento, la valutazione della questione lascia comunque molto perplessi.
All’artista della “sprezzatura”, che ha parlato della semplicità dell’arte in opposizione al riduzionismo minimale, al ridondante e al superfluo, si pone una base ridondante e riduzionista. Una base che occupa, invadendo, l’anima dell’opera. L’opera viene attaccata proprio nel suo rapporto con lo spettatore attraverso un elemento che ne “media” l’immagine e ne riduce la forza, ne disturba l’intimità e spiritualità anche data dal suo stare semplicemente sul pavimento.
Se a collocare un’opera non è più l’artista ma qualcuno in sua vece, maggiore dovrebbe essere lo scrupolo e la responsabilità di non interferire sul senso dell’opera, violentandone l’immagine.
In un Palazzo come questo, stereotipato e tipizzato nell’aspetto di un palazzo ricco, borghese, finto e retorico, non si dovrebbe introdurre altro che possa renderne la visuale ancora più posticcia.
Questa base è un intervento invadente su un’opera malinconica, mistica e cosmica, che si lega agli ultimi momenti dell’artista.
Ma Luciano Fabro negli ultimi anni, diciamo almeno più di un decennio, ha più volte espresso, anche amaramente, la consapevolezza di un periodo destinato a un lavoro sotterraneo, constatando nel mondo dell’arte uno stato di torpore e di sonno, costituito da persone che ormai si sentono ferite da qualsiasi presa di posizione, azione, scelta e diffidenti verso chi difende anche con forza queste posizioni e scelte.
“…sia gli artisti che i restauratori, sia i restauratori che gli artisti, appartengono all’arte. Essi appartengono all’arte, non viceversa; come i musei appartengono alle muse, non viceversa; come critici, archeologi, studiosi, ecc. lavoratori del pensiero e della mano appartengono all’arte e non viceversa. E per concludere la dichiarazione: tutti costoro, tutti noi, se non lavoriamo per l’arte lavoriamo contro l’arte. L’arte non è la nostra compagna o il nostro punto d’arrivo, essa è la direzione, e le stelle che ce la indicano, noi le vediamo solo quando il cielo è sereno”.
Testo scritto come azione di Servizio Civile per Autunno, scultura in marmo di Luciano Fabro esposta, in omaggio all’artista, alla XV Quadriennale di Roma, a cura di Chiara Bertola, Lorenzo Canova, Bruno Corà, Daniela Lancioni, Claudi Spadoni, Palazzo delle Esposizioni, 19 giugno/ 14 settembre 2008. Il testo, concordato con Claudio Citterio e Diego Morandini, è stato inviato a Bruno Corà.
testo pubblicato come estratto nel catalogo della mostra Luciano Fabro e amici galleria Lelong, Zurigo, 2007, e in forma integrale in Casa degli Artisti – Cronistoria seconda parte dal 2003 al 2009, a cura di Giulia Solero, per l’Arte 21, ed. Casa degli Artisti, Milano 2009.
Per Luciano Fabro
Luciano Fabro ci ha lasciato molti indizi da interpretare. Ma, come suo solito, la conclusione rimane aperta, le direzioni possono volgersi in un senso oppure nel senso opposto, poiché è la nostra coscienza che dovrà scegliere e la nostra volontà attivarsi.
Fabro era magnanimo e aristocratico, a volte leggero e ironico, a volte risoluto e intransigente; ha elargito molto a molti, pensiero, affetto, idee, energia, complicità, sostegno, ironia. Sappiamo tutti che non aveva peli sulla lingua, la recente lettura allo spazio Oberdan a Milano(1) non è stata digerita e per molti rimarrà indigesta, lo dimostra il fatto che nessuno ne ha parlato.
Si legge in Le bombe che vi dò pubblicato in Arte torna Arte (2):
“ […]però c’è un’altra cultura che dipende dalle vostre scelte: chi ha studiato qui ha dovuto fare delle scelte a rischio[…]. Se titolo bombe gli elementi che vi metto a disposizione, è per mettervi sull’avviso[…]. Le idee sono bombe. Bomba è sinonimo di deflagrazione. La deflagrazione è legata alla contrazione del tempo (bam). Quest’anno faremo più attenzione agli atteggiamenti, alla posizione che ognuno deve prendere piuttosto che ai lavori che fa. Per mettere l’accento sul fatto che la posizione dei lavori, ora come ora, è quasi più importante, quasi, dei lavori stessi. Perché il lavoro se non è impostato nella situazione giusta rischia di essere neutro, ambiguo e debole […]. Il concetto di spazio è un concetto di potere, le nuove situazioni le chiamiamo spaziali perché sono legate al concetto di spazio autoritario che ha l’artista. È il concetto di autorità della libertà: questo distingue un artista da un politico. Quando si cerca di fare arte politica vuol dire che il concetto di spazio dell’artista diventa al contrario un problema di controllo sociale […]. Quando il sociale controlla lo spazio abbiamo la decorazione […]. La deflagrazione deve avvenire in un determinato momento. Se la bomba non scoppia in quel determinato momento, bisogna disinnescarla. Io sono a Brera da quasi dieci anni. Quando vi sono arrivato si vivevano le situazioni con un ritardo di otto anni. Allora i miei studenti si trovavano fuori tempo, troppo in anticipo su quanto avveniva a Milano e a Brera in particolare. Disponevano, i miei studenti, di strumenti troppo sofisticati per il confronto che tentavano verso l’esterno; così, per trovare una forma di riadattamento, alcuni unirono le loro forze a chi deteneva il controllo del rallentamento artistico (gallerie, critici, artisti). Contrabbandarono i l concetto di autorità con quello di strategia, uno concetto d’artista, l’altro da politico. Ma il lavoro cominciò ad andare indietro […]”.
Luciano Fabro si infuriava e si indispettiva spesso per quanto avveniva davanti ai suoi occhi. Ma non è solo questo e il suo pensiero ad avergli creato nemici e diffidenti, soprattutto a Milano, è la sua lucidità, il suo genio, e questi sono pregi che i contemporanei non perdonano. Tanto meno è stato preso in considerazione il suo insegnamento sia alla Casa degli Artisti sia a Brera. È stata analizzata la sua opera, in parte, mai Regole d’Arte ad esempio o Arte torna Arte. Eppure Fabro ha insegnato a Brera dal 1983 al 2002.
Perchè un insegnamento che rompe i luoghi comuni, che affina il carattere, la sensibilità, la mente, che induce il senso di responsabilità e il coraggio delle proprie posizioni, questo tipo di insegnamento e di atteggiamento è stato costantemente ignorato? Per far emergere l’inconsistenza e la vanità di un lavoro basato sull’idea di libera espressività, di creatività, di personalità, presunzioni che generano la convinzione, ipocrita, dell’artista o del critico “indipendente”, ma basterebbe andare poi a verificare il lavoro o i testi.
Chi ha seguito l’insegnamento di Luciano Fabro, cioè chi ci ha creduto, chi si è identificato, ha dovuto essere molto ostinato e ambizioso. L’ambizioso può anche essere riservato, non deve nascondere l’inconsistenza di chi non ha imparato nulla ma parla lo stesso, soprattutto quando può essere conveniente. Ci sono in giro molti che, ora, dicono di essere stati allievi di Luciano Fabro.
La messa in pratica del suo insegnamento non è cosa facile, è molto costosa, faticosa, rischiosa, occorre avere un reale amore per l’arte, essere consapevoli che l’arte è come un prisma complesso e sfaccettato, estremamente sofisticato e raffinato e richiede il contributo e la cura disinteressata di più persone, la predisposizione e la forza per costruire, difendere, testimoniare, ma anche la forza di contrastare, resistere e di eliminare le attività superflue.
“ […] E dato che la storia, fortunatamente in arte, la fanno a tutt’oggi i maestri, senza maestri non c’è storia […]” (3). Dopo Fontana, dopo Manzoni, una serie di vuoti… Occorreva ricreare il legame e il susseguirsi degli eventi.
Poiché la cultura si eredita come i patrimoni, occorreva rimettere insieme il patrimonio e trovare il modo di trasmetterlo attraverso una didattica “[…] non più di trasmissione di dati, ma di trasmissione umana” (4) così Fabro ha creato la Casa degli Artisti.
Il problema che rimane, e che purtroppo pare irrisolvibile, è che sembra non si sappia riconoscere o non si voglia fare emergere, chi ha realmente contribuito allo sviluppo del pensiero e dell’arte.
Purtroppo la conseguenza è l’estinzione di una civiltà artistica: che non è un’estinzione naturale ma un’estinzione forzata. Si cerca all’inizio di ammorbidire un pensiero fino ad arrivare alla sua distruzione.
Se si sfogliano i testi scolastici di storia dell’arte, i così detti testi didattici, si noterà che Fabro è spesso inesistente e se c’è, è con trafiletti insignificanti. Eppure questi testi sono quasi sempre fatti da critici “militanti”. Tutto ciò è sorprendente visto il patrimonio artistico e teorico che Luciano Fabro ha creato e che non ha certo paragoni tra i suoi contemporanei e non ne ha neppure molti nella storia.
Nessuno ha avuto il coraggio di dare un taglio prospettico selettivo alla storia dell’arte, si sono piuttosto livellati i reali contributi, confuso il senso della continuità degli eventi e di cosa consista questa continuità.
Per selezionare, non secondo criteri strategici, occorre troppo coraggio… è troppo rischioso.
Il carico di lavoro e di pensiero, di responsabilità, che Luciano Fabro sosteneva sulle sue spalle era enorme, il fardello di Sisifo e la missione, suo malgrado, di Giona (l’artista profeta non l’artista servo).
Un enorme lavoro che verrà, probabilmente, temporaneamente nullificato da questa servile società dell’arte. Luciano Fabro scrisse L’atto artistico e parlò di morte per disarmonia.
Quello che turba è che nel tempo le profezie di Fabro si sono avverate, tanto che lui stesso afferma “[…] Quando mi è stato proposto l’argomento ‘Si può ancora fare e insegnare l’arte?’ la mia reazione fu indispettita: come mai ci si chiede perché fare l’arte? Dove collochiamo l’arte? Nello stato di necessità o nella zona del superfluo? Credo che gli uomini, nella loro storia passata, non l’abbiano mai collocata tra il superfluo. Se non altro per lo sforzo che le hanno dedicato devono aver considerato che era necessaria…questo dubbio è abbastanza recente e mi chiedo: è un dubbio indotto, o un dubbio costitutivo? Perché se è un dubbio indotto, prima di tutto sarebbe necessario vedere quali sono i canali di induzione; se invece è un dubbio diventato genetico, la cosa mi preoccupa tremendamente, anche perchè mi sembra impossibile il comunicare tra persone alimentate dall’arte e persone non-alimentate dall’arte […]” (5).
Tutto è stato nullificato a tal punto da arrivare a chiedersi se l’arte ha necessità di esistere e da impedire ormai la possibilità di comunicare? “ […] Mentre io insistevo nell’addomesticare i misteri di un passato non solo storico, ma ormai biologico, i miei studenti, ma forse una nuova specie di artisti e di addetti all’arte si stava posizionando in maniera avulsa da tutte le questioni ed aspettative che mi avevano motivato in senso didattico. I miei studenti non avevano niente da dirmi né da farmi dire, pure io. La decima fu una lezione fatta a me medesimo, ne conseguì l’abbandono di Brera”.(6)
Anche alla Casa degli Artisti siamo rimasti in pochi a difendere una posizione nell’arte, in un momento in cui tra l’altro nessuno è più in grado di capire qual’è la sua.
Le persone che hanno condiviso il pensiero di Luciano Fabro e hanno sostenuto i suoi sforzi, le persone amiche che gli erano vicine, si sono improvvisamente ridotte: Jole de Sanna, Carla Fabro, Johannes Gachnang se ne sono andati poco prima di lui.
Penso con malinconia alla mostra di Zurigo, rivedo un Giona-Sisifo che sostiene risoluto il Giudizio Universale (di Michelangelo) senza sforzo, con leggerezza; di fronte un’immagine fluttuante di linee e colori evoca un vuoto in trasformazione, ora mi riappare come Il Grido di Munch, vicino a una Terra che vaga nell’Autunno e sopra, alla luce del sole e della luna, è schiacciata dall’Inverno.
Così come iniziò il destino artistico di Luciano Fabro, nel solstizio d’estate dell’anno 1963, quando, fatalmente, nella biblioteca di Affori, in una giornata afosa e dal cielo color ocra, trovò il libro di Francesco Bacone, qualche giorno fa, quando lui morì, era il solstizio d’estate dell’anno 2007.
Un disegno del 2006 Daccapo, alla cieca, stampato anche nel frontespizio di Art Body (7), libricino che contiene la lezione omonima tenuta all’Accademia di Brera il 31 maggio 2000, presenta un’immagine tracciata a occhi chiusi, una strana figura femminile, una sorta di angelo nudo accovacciato di spalle: l’impressione è che prima o poi arriverà a voltarsi.
®Luisa Protti, giugno 2007
Note
(1) “Che cosa è la scultura”, nella rassegna “Perché non parli?”, a cura della Provincia di Milano, introduce G.Di Pietrantonio, interviene D.Soutif, Spazio Oberdan, 24 Ottobre 2006, Milano.
(2) Luciano Fabro, Le bombe che vi dò, pag.183-186, (Brera, 2 febbraio 1993), in Arte torna Arte, Piccola Biblioteca Einaudi, ottobre 1999.
(3) “Che cosa è la scultura”, nella rassegna “Perché non parli?”, a cura della Provincia di Milano, introduce G. Di Pietrantonio, interviene D.Soutif, Spazio Oberdan, 24 Ottobre 2006, Milano.
(4) Luciano Fabro, Perché continuiamo a fare e insegnare arte?, pag.191, (Conferenza alla biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Bologna, 29 aprile 1993, Brera, 6 maggio 1993), in Arte torna Arte, Piccola Biblioteca Einaudi, ottobre 1999.
(5) Luciano Fabro, Perché continuiamo a fare e insegnare arte?, pag.189 (Conferenza alla biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Bologna, 29 aprile 1993, Brera, 6 maggio 1993), in Arte torna Arte, Piccola Biblioteca Einaudi, ottobre 1999.
(6) Luciano Fabro, La storia dell’arte moderna nel DNA attuale, lezione decima, lezioni tenute all’accademia di Brera nell’anno accademico 2001-2002.
(7) Luciano Fabro, Art Body, edizioni L’Obliquo, Brescia, marzo 2006
testo per Generazioni e rigenerazioni, mostra e convegno a cura di Bruno Corà, CAMeC, La Spezia, dicembre 2006; pubblicato in Casa degli Artisti – Cronistoria seconda parte dal 2003 al 2009, a cura di Giulia Solero, per l’Arte 21, edizioni Casa degli Artisti, Milano 2009.
Volevo premettere questo intanto, noi della Casa degli Artisti abbiamo voluto apparire senza la tutela di un critico perché il progetto, è un po’ come aveva introdotto Bruno Corà, era proprio iniziato con l’idea di porre in modo chiaro la propria posizione a fronte di un’altra e quindi senza nessun tipo di mediazione. Allora ho trovato che il fatto di avere creato questa mediazione, in qualche modo forse può confondere le cose.
Sappiamo tutti che da secoli la storia dell’arte italiana è fatta di casi isolati, artisti che a gran fatica riescono a incidere nel loro tempo. Medardo Rosso, de Chirico, lo stesso Fontana, Manzoni, Lo Savio. Sappiamo degli ostacoli che impedirono loro l’insegnamento nelle accademie (ad esempio per Rosso, de Chirico, Fontana). Ciò nonostante sono loro ad essere rimasti a dare prestigio alla storia dell’arte italiana.
In risposta a ciò qualcuno si è assunto la responsabilità della trasmissione della lingua che lega questi artisti, di inventare un insegnamento che potesse trasmettere i geni di una lingua artistica e che potesse così facilitare il ricrearsi dell’arte, come avveniva ai tempi aurei dell’arte italiana, nel Rinascimento. Nasce la Casa degli Artisti. Eppure tutto questo è stato osteggiato. Chi ha creduto e si è espresso in questa lingua è stato considerato incomprensibile e di conseguenza è stato tagliato fuori, a me per esempio è successo, ma non sono la sola. Quelli che hanno perseverato si sono riconosciuti in una genealogia dell’arte.
Come mai tutto questo è stato osteggiato? E’ una domanda che pongo a voi come artisti, come critici, come storici. Ancora recentemente l’abbiamo visto, per esempio nell’ “Immagine del Vuoto” a Lugano dove ci si è voluti appoggiare a precedenti storici per creare un legame tra artisti giovani. Però un conto è indicare dei precedenti storici e un conto è assumersi il lavoro di un legame genealogico attivo.
Gli studi di Jole de Sanna su Medardo Rosso, su Fontana, su Fabro sono delle analisi di consanguinei. La nostra posizione è quella di credere e attivarsi nella genealogia dell’arte. E voi che posizione avete?
Come mai non ci sono più artisti italiani alle grandi mostre internazionali? Siamo man mano spariti anche dalla Biennale di Venezia, forse non capendo più la nostra lingua non si capisce più la lingua di tradizione italiana?
I giovani artisti di successo degli anni ’80, quelli che per esempio a Milano venivano fuori dalla Brown Bovery e sono finiti nelle varie gallerie con i relativi collezionisti e le relative mostre critiche, per lo più presenti ad esempio a “Due o tre cose che so di loro”, mostra curata da Marco Meneguzzo (visto che poi dovrebbe arrivare), quegli artisti non si sentono più, se voi sfogliate il catalogo della mostra o in generale i libri che hanno cercato di raccogliere gli anni ’80 e anche ’90, vedrete che un sacco di nomi sono spariti eppure all’epoca erano quelli che avevano successo, vi chiedo dove sono finiti questi artisti o cosa hanno determinato? I nomi che io sento ogni tanto sono Airò, Moro, Pezzi, anche Rudigher, Maloberti, però se non sbaglio, anche loro sono passati alla Casa degli Artisti.
Secondo me la valutazione e il giudizio delle cose adesso possono essere fatti in base all’analisi e alla valutazione di che cosa è rimasto dato che è quello che rimane che alla fine determina una misura di valore; la capacità del giudizio critico va recuperata, perchè non è che ci si può riferire a ciò che va per la maggiore al momento. Se una cosa ha la forza di rimanere ci sarà un motivo, e allora sulla base di questa verifica si potranno recuperare gli strumenti critici.
Il rifiuto e la guerra alla genealogia hanno creato generazioni di artisti che non danno vita ad altre generazioni, ad altri movimenti. Un artista impotente non si arricchisce e non arricchisce nessuno, copia. Si copia per l’incapacità di vedere dove stanno le potenzialità artistiche, per l’incapacità di svilupparle in nuove direzioni, la copia riprende tematiche, soggetti, tecniche. Si copia una cosa proprio perché con essa non si ha alcun legame di coscienza.
È ora di decidere posizioni e azioni coraggiose, chiare, non fumose, opportunistiche.
®Luisa Protti, dicembre 2006
A FRONTE: Forse non si capisce più la lingua di tradizione italiana?, testo per Generazioni e rigenerazioni, mostra e convegno a cura di Bruno Corà, CAMeC, La Spezia, dicembre 2006; pubblicato in Casa degli Artisti – Cronistoria seconda parte dal 2003 al 2009, a cura di Giulia Solero, per l’Arte 21, edizioni Casa degli Artisti, Milano 2009.
testo per il convegno Per l’arte con gli artisti. Atti in onore di Jole de Sanna, a cura di Walter Rosa, Accademia di Brera, Milano, 13 aprile 2005; pubblicato in Per l’arte con gli artisti. Atti in onore di Jole de Sanna, a cura di Walter Rosa, Firenze ETP BOOKS, settembre 2008.
“…Al primo posto viene come preservare il seme dell’arte”(1)
Conobbi Jole de Sanna all’Accademia di Urbino nel 1978, frequentavo il primo anno, arrivò una giovane insegnante un po’ arruffata e dall’aspetto deciso. Fui affascinata dal suo modo di raccontare l’arte perché riusciva a rendere gli argomenti questioni importanti, su cui dover necessariamente riflettere, arrabbiarsi o gioire. È raro trovare un insegnante che ama sinceramente la sua materia e Jole de Sanna sapeva comunicare quelle simpatie e quelle antipatie che sentiva lei stessa e tener vivo così l’interesse.
Notò il mio interessamento e mi invitò alla Casa degli Artisti che stava nascendo in quel momento a Milano.
La Casa degli Artisti mi appariva con un carattere radicale, anche Jole de Sanna aveva quest’aspetto, battagliero e spirituale nello stesso tempo. Non aveva la disposizione a vivere il già fatto, sceglieva la condizione eccitante ma faticosa di originare le cose. In un luogo fatiscente tutto da rimettere a posto, senza garanzie, senza appoggi politici e finanziari.
In un certo senso quando l’ho conosciuta sono stata anche attirata da questo lato un po’ estremo, quello delle persone che rischiano la pelle sul campo, più che altro perché assapori qualcosa di vero e non l’insipidezza di qualcosa che comunque potrebbe essere sostituita da un’altra.
Jole de Sanna mi offriva anche il suo esempio di donna che aveva abdicato a un quieto vivere per un lavoro particolarmente costoso e faticoso. Però non ha mai vissuto nell’astinenza, era anche attratta dalle cose frivole e inutili. Non era tanto portata alla discussione, a volte non gradiva opere, affermazioni o giudizi, credo che più che ferirla la preoccupassero.
Era austera, semplice, lavoratrice, e insieme frivola, per niente pratica, era spesso distratta (soprattutto quando camminava per la strada) e con slanci di entusiasmo giovanile.
La Casa degli Artisti era un’avventura al buio alla scoperta di nuove possibilità per l’arte, di nuovi mezzi e modi di fare, con altre persone. Nell’introduzione di Antipasti(2) de Sanna scrive “Arte e organizzazione sembrano, anzi sono non sembrano, forze antagoniste. Non è affatto esagerare affermare che non ce l’ha fatta mai nessuno, né con, ma nemmeno contro. Fate i sondaggi nella storia e vedrete che è vero. Sempre. Siccome lo sapevano, i realizzatori del progetto della Casa degli Artisti fecero proprio questo. Ci misero il meglio che potevano: volontà di giovare, spirito positivo, abnegazione, temperamento, obiettivo morale, gusto polemico.”
In La critica d’arte: un’attività spesso ‘estranea al fatto artistico’ o un lavoro che si può anche fare bene?(3) di Bruno Corà leggo un passo da una lettera di Carla Lonzi: “Vorrei aggiungere che l’artista mi è scontato, per quanto riesce oggi a manifestarsi, anche se altre situazioni che mi prendono sono difficili da nascere e da sostenersi. Però non ho dubbi che lo sbocco è lì, col concorso di tutti, naturalmente.” Penso che la Casa degli Artisti sia una risposta alle questioni poste dalla Lonzi, il momento della relazione, la reciprocità che lei non ha trovato nell’ambiente dell’arte, l’impossibilità della figura del critico.
La Casa degli Artisti si è mantenuta grazie alle idee, innanzitutto, e grazie al lavoro di reciprocità tra le persone, spesso nella polemica, ma con la consapevolezza e soprattutto con la disponibilità a ritenere l’arte non un fatto personale, strategico, politico, ma una necessità e un fatto pubblico nel senso più globale.
Aptico (4) e Autoritratto(5) furono i testi dell’ inizio che mi proiettarono nel cuore e nell’intimità del lavoro, mi sentivo vicina agli artisti, ai loro problemi, vicina all’arte, mi sentivo complice.
Aptico muovendosi tra autori, opere, epoche artistiche, pone il senso del lavoro fuori da un problema disciplinare.
Nel 1978 Jole de Sanna iniziò il restauro di Palazzo de Carlo a Massafra, con la chiesa rupestre e il giardino medievale, che poi avrebbe ospitato anche le opere degli artisti, questo restauro è corrisposto a un modo di costruire nel tempo una forma che come scrive lei stessa “…continua il suo lavoro di precisione e anche di ornamento, ma della coscienza”(6). De Sanna amava ciò che nella natura poteva ricollegare all’arte; così suggerisce in Filologiae(7) la natura come “(…) apparato funzionale dell’immagine”; e l’idea di un luogo dell’arte, della natura, dell’uomo, che attraversa la storia, è una novità a partire da Aptico.
Palazzo De Carlo sede di opere diverse nel tempo, continuamente aggiornate, di un giardino antico sapientemente e costantemente rinnovato, è la concretizzazione di questo pensiero, di questa necessità.
L’insegnamento di de Sanna includeva tutta l’arte nell’idea che il passato è un luogo di idee da reinventare ed è un luogo di identità. Filologiae(8) è il lavoro a più mani emblema di questo atteggiamento, lo montammo a Massafra nell’estate del 1984 in un salone del piano settecentesco di Palazzo de Carlo.
Poiché la nostra amicizia nacque in coincidenza e in relazione con la nascita della Casa degli Artisti indicherò per punti le anticipazioni, le idee, gli insegnamenti di cui Jole de Sanna fu promotrice e animatrice insieme a Luciano Fabro e Hidetoshi Nagasawa.
Jole de Sanna si era posta il compito di lavorare sugli autori che considerava fondamentali per chi iniziasse a lavorare perciò ad essi (Rosso, Fontana, Fabro, Nagasawa, de Chirico) vi dedicò uno studio approfondito, totale.
Spesso in questi studi coinvolgeva gli studenti, ad esempio ci fu un gruppo che recuperò tutto il materiale su Medardo Rosso a Barzio.
Con i giovani ha lavorato anche acquistandone i lavori e creando collezioni a Milano, a Ischia e a Massafra, offrendo loro, in modo diretto e indiretto, molto materiale da osservare, su cui riflettere.
A me ha dato anche l’opportunità di realizzare a Massafra opere che lì mi hanno richiesto minor costo e minor tempo.
Dall’esterno però non risultano ancora tentativi di valutare l’attività della Casa degli Artisti e di sottoporla a uno studio analitico e approfondito. La Casa degli Artisti è una delle rarissime situazioni che sopravvivono e che riguarda la ricerca sull’arte, esattamente come succede nel campo scientifico, una situazione nata a Milano, probabilmente irripetibile, anche per la durata nel tempo, ci si augura che questa città, un tempo centro dell’arte d’avanguardia, non la distrugga o la lasci morire, anzi ci si augura che arrivi finalmente a sostenerla.
®Luisa Protti, maggio 2005
Note
(1) Jole de Sanna, Forma-l’idea degli artisti 1943-1997, universitaria costa &nolan, 1999, p. 218.
(2) AA.VV. Antipasti, edizione Per l’arte 4, Casa degli Artisti, Milano 1981.
(3) Bruno Corà, La critica d’arte:un’attività spesso ‘estranea al fatto artistico’ o un lavoro che si può anche fare bene? Note su Carla Lonzi per Jole de Sanna, testo per il convegno dedicato a Jole de Sanna, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano 13 giugno 2005.
(4) Jole de Sanna, Aptico-il senso della scultura, Alessi d’Aprés s.p.a. , Crusinallo, Verbania 1976.
(5) Carla Lonzi, Autoritratto, De Donato Editore, Ponte Sesto di Rozzano (MI), 1969.
(6) Jole de Sanna, Forma-l’idea degli artisti 1943-1997, universitaria costa &nolan, 1999, p.8.
(7) AA.VV. Filologiae, edizione Per l’arte 5, Casa degli Artisti, Milano, 1983.
(8) Filologiae, opera realizzata da P. Almeoni, E. Buonaguro, M. Donati, R. Proto, L. Protti, L. Quartana, A. Trovato, allestita e inaugurata nella Sacrestia Bramantesca di Santa Maria delle Grazie, Milano, 14 dicembre 1983; collocata nell’estate ’84 a Palazzo de Carlo, Massafra, (TA).
(9) Luciana Trombetta, Casa degli Artisti-cronistoria dal 1978 al 2003, tesi di diploma anno accademico 1999-2000, aggiornata al 2003, relatore Luciano Fabro, edizione Per l’arte 19, Casa degli Artisti, Milano, 2003, p.16.
(10) Panca, manifesto della Casa degli Artisti con il testo Panca di Jole de Sanna, redatto in occasione dell’esposizione dell’opera omonima ad Aperto ’82, a cura di Tommaso Trini, Magazzini del Sale, Biennale di Venezia, Giugno 1982. Panca è un’opera a più mani realizzata da: P. Almeoni, R. Chiodi, F. Crivelli, M. Ghirardani, R. Proto, L. Protti, L. Quartana, A. Trovato.
(11) Antipasti, R. Chiodi, F.Crivelli, M. Ghirardani, R. Proto, L.Protti, L. Quartana, A. Trovato, Castello Sorzesco, Milano, in occasione della mostra I materiali dell’Arte “processi tecnici e formativi dell’immagine”, 2 dicembre 1981.
(12) Mostre Casa degli Artisti, a cura della Casa degli Artisti, Casa degli Artisti, Milano, 20 giugno 1985. Espongono: P. Almeoni, E. Buonaguro, M. Cianciotta, F. Crivelli, A. Cola, M. Ghirardani, E. Grisanti, D. Kozaris, A. Mazzara, C. Onda, P. Pezzi, R. Proto, L. Protti, E. Rivoira, A. Trovato,
(13) Liaisons(Nessi), a cura di Jole de Sanna, San Cristoforo, Lodi, giugno 2003, espongono: L. Chiappini, C. Citterio, D. Francesconi, M. Ghirardani, A. Giorgi, M. Guido, D. Morandini, N. Palumbo, L. Protti, S. Spasic, S. Sturiale, A. Tavola, A. Tedesco, L.Trombetta.
(14) Etico, manifesto redatto da P. Almeoni, E. Buonaguro, F. Crivelli, M. Ghirardani, R. Proto, L. Protti, L. Quartana, A. Trovato, Milano, novemnbre 1985.
Al primo posto viene come preservare il seme dell’arte, testo per il convegno Per l’arte con gli artisti. Atti in onore di Jole de Sanna, a cura di Walter Rosa, Accademia di Brera, Milano, 13 aprile 2005; pubblicato in Per l’arte con gli artisti. Atti in onore di Jole de Sanna, a cura di Walter Rosa, Firenze ETP BOOKS, settembre 2008.
testo per la serie di incontri In fuga tra i percorsi – Artisti al lavoro, a cura di Jole de Sanna e Giovanna Salvioni, con la collaborazione di Maria Teresa Cattaneo, Università Cattolica Del Sacro Cuore, Milano, 22 marzo 2003, pubblicato in AA.VV Percorsi in fuga, edizioni I.S.U. Università Cattolica, Milano, Italia, 2005.
Ho scelto i lavori che in qualche modo riuscivo a portare qua, sotto potete vedere “Acromo”, un cuscino da notte con un buco, delle “Uova di cemento” e ” Gelato” e, in collegamento con questi lavori, ne ho scelti altri che man mano vi proietterò.
Vorrei indicare il legame che ci può essere tra queste opere, un legame che può formare quasi l’immagine di un unico lavoro.
Un cuscino da notte con un buco nel centro, questo buco modifica l’immagine del cuscino e crea diversi rimandi, ad esempio può accentuare la dimensione notturna, il sonno, il sogno… Così le “Uova di cemento”, bè le uova hanno un’immagine anche sensuale come del resto il cuscino; contengono per me sogni che abbiano la forza di rompere il cemento. “Per rivalutare la £ira 1” e “Per rivalutare la £ira 2” hanno un’idea di proliferazione e di abbondanza, sono fatti anche di monete, mi appaiono come dei tesori usciti dalle uova. “Per rivalutare la £ira 2” è proprio un letto e c’è anche un lenzuolo con un buco e un cuscino. In entrambi c’è un bicchiere che nel caso di “Per rivalutare la £ira 1” è capovolto ed è un elemento che capta la luce; in “Per rivalutare la £ira 2” invece contiene dell’acqua e in alto è appoggiato un cucchiaino con del pongo spalmato sopra, come il resto di un gelato. Questi possono essere considerati indizi di lavori che sono venuti dopo: per esempio “Buonanotte” oppure “Gelato”. Comunque ora torniamo al primo, il cuscino con il buco, che è anche quello più vecchio, si intitola “Acromo” è del 1989.
Questo lavoro fu un’apparizione, un flash. Ero al mare e sonnecchiavo sulla sdraio. Ho visto un cuscino con un buco nel centro. Il buco aveva delle dimensioni piuttosto piccole, la dimensione di un dito ecco (io gli ho dato le dimensioni del mio dito indice) e dava una certa forma al cuscino.
Stranamente l’apparizione aveva dei requisiti storici, infatti lo esposi a Soncino paese natale di Piero Manzoni, a cui dedico il lavoro con il titolo “Acromo”. Lo collocai in un armadio su dei ripiani insieme ad altri due “Acromi”, una scatoletta d’ovatta e un lenzuolo anch’essi con un buco nel centro, e tutti e tre hanno preso quel titolo anche come omaggio a Manzoni.
Il buco modifica l’immagine del cuscino, è come un occhio, guarda fuori ma contemporaneamente porta dentro, con la mente anche, fa vedere quello che si vede ma allude a quello che si nasconde. Questo buco nero può essere l’ombra dentro il cuscino, qualcosa che turba la sua immagine e in modo ironico suggerisce il punto d’ incontro tra un sedere e un cuscino.
Le “Uova di cemento” sono del 1994 e sono ottenute sostituendo il cemento all’albume e al tuorlo. L’uovo è l’idea della vita e di cose nuove quindi è augurale, il cemento invece è un materiale ottuso. Qui le vedete alla mostra “Scossa” con Dadamaino, Mariella Ghirardani e Arianna Giorgi, nello spazio di Care/of.
L’idea è questa: prendere quello che c’è in giro, la situazione che c’è, ferma, ottusa, grigia e dargli il senso di una materia dura e anonima che può rigenerarsi. Però rompere il cemento è difficile, occorre molta forza, energia, un pulcino non può uscire.
L’idea della vita, l’uovo, è contrastata dal cemento.
Le uova di cemento mantengono sempre un’aspetto piacevole, un aspetto candido, tenero e magari non ci si accorge della tensione e della drammaticità che esprimono.
Come potete immaginare anche allora intorno era un momento di crisi, di lavoro e di altro. Infatti alla mostra davo l’uovo alle persone che venivano e che potevano essere complici nel lavoro o semplicemente amici, un augurio per la vita ecco.
Oggi le circostanze esterne accentuano la drammaticità dell’uovo di cemento, perché il cemento come metafora di quello che succede e ci sta intorno si è particolarmente indurito.
L’uovo di cemento rimane comunque un incitamento.
Dicevo prima che le uova contengono immagini ma escono solo quelle che hanno la forza di rompere il cemento come, a me sembra, i due lavori che vi sto mostrando e che vi ho già citato… Questo è un particolare della mostra che feci alla galleria Elisabeth Kaufmann… un particolare suggestivo perché c’è la luce che entra nella stanza in penombra e si riflette nel prisma di vetro pieno d’acqua e quindi le parti che compongono il lavoro e l’esterno vi si riflettono, compresi quei due signori che stanno guardando dalla strada. Questa è invece la seconda versione, qui è alla galleria Swajcer ad Anversa per la mostra “Immagine Naturale” con Fabro, Giorgi e Morandini. E vi mostro anche il primo allestimento allo Schloss Solitude di Stoccarda che è il luogo dove ha avuto origine questa seconda versione. Avevo già realizzato “Per rivalutare la £ira 1” ed era l’epoca, come avrete immaginato, della svalutazione della £ira, essendo in Germania con il sostegno economico del Baden Wuttemberg e con il marco non svalutato, ho immaginato (credendo nei riti propiziatori) un pioggia d’oro ma sottoforma di marchi tedeschi, cioè ho immaginato che le povere quattro lire di “Per rivalutare la £ira1” si moltiplicassero in due milioni di lire ma prendendo l’aspetto di marchi, un Giove pluvio di marchi ed io una Danae a riceverli sul mio letto dello Schloss Solitude. Alla banca mi hanno dato le monete (1500 D.M.) nel bosco attorno allo Schloss avevo intravisto un tronco che sembrava un capitello, c’era la neve e le foglie e il terriccio bagnato apparivano proprio come le monetine dei marchi e la neve come lenzuola candide. Insieme alle monete e alle lenzuola ci sono ramoscelli, qualche uovo di cemento, c’è una piccola forbice e altro, c’è un cuscino e una delle lenzuola è un “Acromo”, a un certo punto si può vedere anche un buco nero ecco; questo è un bicchiere con dell’acqua, sopra è appoggiato un cucchiaino spalmato di pongo, a me sembra l’immagine di una sorta di piccola fonte per un insetto colorato o goloso, infatti suggerisce oltre al resto di un gelato i colori di un insetto.
In un testo dico “… È come se la natura in parte si presentasse così come è (ramoscelli, tronco, arbusti, acqua) e in parte si trasformasse in cose (monete, bicchiere, letto, fili, forbice..) o viceversa. Il tronco può far pensare a un capitello cresciuto in un bosco”.
“ … ho adoperato ciò a cui è stato tolto valore e che è diventato simbolo di degradazione per riscattarlo attraverso il lavoro”.
Oggi c’è l’euro, non esistono più né £ira né marco e quelle monete diventano il simbolo di un’epoca, un ricordo, una superficie metallica pesante e forse acquisteranno valore economico come oggetti da collezionismo.
Allora potevi rubarle, infatti c’era qualcuno che aveva rubato qualcosa…
Questo è “Buonanotte”, “buonanotte” perché evoca uno spazio sospeso dentro lo spazio reale, come nel sonno. Inoltre “Buon…” sta vicino ai brindisi e visto che ci sono i bicchieri…
Ho immaginato di guardare stando con gli occhi chiusi verso un esterno luminoso, perciò l’occhio nell’argilla ha la palpebra chiusa e l’alone di questa visione corrisponde all’alone dei bicchieri trasparenti che riflettono interamente la luce; l’altro alone di bicchieri è spruzzato di bianco, volevo ottenere una sorta di polvere, come una nebbia che sospende la zona che occupa, corrisponde alla visione verso un interno, che può essere inteso come luogo mentale, psichico ma non necessariamente buio e angosciante, anzi! L’impronta dell’occhio che appartiene a questo alone è al negativo.
La versione 2003 è colorata da pezzi di “Gelato”: pistacchio, panna, fragola, menta o prato.
Ed ecco “Gelato”, “Lingua”, “Bisteccona”, “Chiacchere”
Attualmente ho lavorato a cose di questo tipo: ho trattato la creta come se fosse un cibo, un cibo suggestivo: il gelato, la sfoglia, una pasta carnosa.
Non sono sculture in senso tradizionale, più che sculture sono un lavoro da cucina, ho reso l’argilla una pasta più o meno sottile che poi ho avvolto. Alcuni sono stati scambiati per degli stracci, in questo che state vedendo io ho visto una bisteccona, poi ce n’è un altro che sembra una lingua ed è anche il suo titolo nel doppio significato di “lingua”, un altro ancora un’alga.
L’immagine di un cibo fresco è, in parte, l’unità di misura della riuscita del mio lavoro, la freschezza, la fragranza sono elementi di attrazione. “Gelato” ha l’aspetto e la cremosità di un vero gelato ma la ceramica lo cristallizza. In un video che ho realizzato allo Schloss mangio un vero gelato posto direttamente sul prato.
L’argilla e delle suggestioni: crema, gelato, sfoglia di pane, bisteccona…
C’è l’idea di trovare una comunicazione immediata con lo spettatore attraverso il cibo che quotidianamente ingerisce.
Vengono considerati alcuni momenti del vivere, come per esempio il cibo ma soprattutto alcune caratteristiche di esso: la fragranza, la freschezza, l’apparenza gustosa eccetera, anche la gioiosità. E soprattutto viene considerato l’aspetto che coincide con queste caratteristiche.
C’è un continuum, un cammino del gelato al gelato-opera.
A un certo punto in questo cammino qualcosa cambia, colori, luci, ombre, peso, consistenza, immagine, senso; rimane la fragranza, la freschezza, la cremosità.
Si è trattato di dare corpo a momenti della vita. Gli si è fatto compiere un cammino in cui la “realtà” è diventata ombra o riflesso dell’opera.
Concludo con un’affermazione che riguarda questi ultimi lavori, ma non solo, ed è che il lavoro consiste nel fare una cosa che separi la realtà arte dalla realtà quotidiana ma nello stesso tempo le mantenga unite. Come tutti i lavori che uno fa poi li sceglie, cioè rimane il fatto che tu fai una cosa e poi la scegli.
Cosa scegli? Una cosa che non sembri già vista, che comunque dimostri uno spessore storico, che si allaccia al tuo lavoro ma anche a quello degli altri.
®Luisa Protti, 22 marzo 2003
Racconto di alcune opere, testo per la serie di incontri In fuga tra i percorsi – Artisti al lavoro, a cura di Jole de Sanna e Giovanna Salvioni, Università Cattolica Del Sacro Cuore, Milano, 22 marzo 2003, pubblicato in AA.VV Percorsi in fuga, edizioni I.S.U. Università Cattolica, Milano, Italia, 2005.
testo inserito nel catalogo Giorgi, Morandini, Protti, Per l’Arte 10, edizioni Casa degli Artisti, Milano, giugno 1999.
Per mutare immagine occorre cambiare pelle: una nuvola che prende forma umana rimane nuvola, piove comunque. L’immagine di una cosa è la sua sensazione. L’immagine non è una rosa, non è un sasso, né un volto, né un punto, né un luogo, ma è tutto ciò in cui scaturiscono, ramificandosi, sensazioni. L’immagine comprende la globalità dell’esperienza. Quando vedo una rosa io vedo la sua figura, ma l’esperienza fisica e psichica della rosa, la sua sensazione, è qualcosa che dal fiore mi congiunge al resto. Perciò immagine è ciò che produce e profonde una cosa in termini di “sensazione allargata”. Nel lavoro “sensazione allargata” corrisponde a un modo di intensificare qualcosa anche attraverso legami tra sensazioni sparse, è quella sensazione intensa e particolare che ci fa sentire la consanguineità tra più cose, tra queste e noi, come se avessimo in comune un luogo di origine. Il senso di consanguineità muta il concetto di “collocazione”o “esposizione” dell’opera in quanto anche il luogo diventa “luogo di origine” e assume caratteri di parentela con l’opera.
Tutto dà sensazione, ma non tutto crea attrazione. Se una cosa non attrae anche la sua sensazione rimane indifferente.
Più l’umanità invecchia e più la sua esperienza con le cose deve acquistare originarietà perché si mantenga la forza vitale dell’attrazione.
C’è un che di ancestrale in questo “essere attratti da…”, è l’attrazione in sé a costituire uno stato d’animo originaro e non l’aspetto dell’opera che, anziché essere rozzo, si presenta in modo molto sofisticato.
®Luisa Protti maggio 1999
Sensazione allargata, maggio 1999, testo inserito nel catalogo Giorgi, Morandini, ProttiPer l’Arte 10, edizioni Casa degli Artisti, Milano, giugno 1999.
Akademie Schloss Solitude, Stoccarda, pubblicata in SACCO e in Casa degli Artisti Mostre, Per l’Arte 7, edizioni Casa degli Artisti, Milano, 6 dicembre 1996.
Karl Holz. Come immaginavi l’Akademie Schloss Solitude e come ti si è rivelata di fatto?
Luisa Protti. Quando uno arriva all’Akademie Solitude sa di entrare in un posto dove vivono e lavorano altri artisti ed è stimolato dalla possibilità di comunicare esperienza di lavoro con persone che provengono da esperienze e culture diverse: un’occasione di dialogo potenzialmente molto interessante. Ma la sua riuscita in questo senso è dovuta alle circostanze in quanto, affinchè questo avvenga, occorre che si incontrino persone con cui si hanno affinità o interessi, aspirazioni, temperamento, ambizioni, comuni. Nel caso contrario la comunità esiste solo in maniera formale e l’Akademie diventa un luogo di isolamento che, comunque può risultare produttivo e utile.
Karl Holz. In che cosa è consistita per te l’esperienza all’Akademie Solitude?
Luisa Protti. Tenendo conto che io comunque vi ho trascorso un tempo limitato (quattro mesi suddivisi in due periodi), direi che per me è stato necessario cercare di collegare i fili della mia esperienza di lavoro e di cultura con un luogo che definirei “neutro”, che senti come momentaneo (anche se di lunga durata), ma non è una vacanza al mare o in montagna.
L’allacciamento dei fili può avvenire attraverso il lavoro, le persone e il luogo, inteso proprio anche come natura: questo era il proposito della lettura di un testo alle persone di Solitude, un modo di comunicare attraverso la trasmissione di pensieri e riflessioni sui problemi del lavoro, ma credo di avere soprattutto allacciato fili con il luogo, con i boschi attorno, quindi attraverso il lavoro prodotto più che con le persone…
Karl Holz. Che cosa hai riscontrato come carattere veramente distintivo tra Italia e Germania, riferendoci sempre, naturalmente alla situazione artistica?
Luisa Protti. Quello che si sa da tempo: la Germania usa la cultura come elemento di lavoro, di produzione di economia, di ricchezza e adopera anche la cultura come veste prestigiosa, in quanto, se esistono luoghi che forniscono borse di studio agli artisti, se esistono grandi collezioni e musei vuol dire che la Germania sa di averne anche un ritorno economico e di immagine, se l’Italia non fa questo vuol dire che non lo sa… Un’ignoranza che forse la nazione pagherà a caro prezzo.
Karl Holz. C’è una relazione tra quello che dici e il lavoro che hai esposto qui all’Akademie (“Per rivalutare la £ira 2”)?
Luisa Protti. Sì, anche il titolo allude metaforicamente all’Italia. La £ira non rappresenta solo, in questo momento, la svalutazione in senso economico ma anche in quello artistico e storico.
Ho adoperato ciò a cui è stato tolto valore e che è diventato simbolo di degradazione per riscattarlo attraverso il lavoro. In “Per rivalutare la £ira 1” l’immagine suggerisce l’idea di una fonte e insieme di un tesoro, anche se nel lavoro ci sono poche £ire! In “Per rivalutare la £ira 2” le £ire sono cambiate in marchi e si moltiplicano. Qui l’immagine può far pensare a un tesoro cresciuto in un bosco: le monete è come se ne fossero il terreno o un tappeto di foglie; i fili è come se fossero propaggini pendenti dagli alberi o ragnatele che conservano la memoria delle reti da pesca bagnate sulla spiaggia; le pieghe delle lenzuola potrebbero essere come ramificazioni nella terra che si fluidificano come rigagnoli d’acqua (insieme alle monete e al letto alludono alla pioggia d’oro, come nel mito di Giove e Danae); nel bicchiere l’acqua è come se fosse una perla disciolta nel guscio di una conchiglia trasparente, o la fonte di un insetto colorato: il cucchiano spalmato di pongo colorato potrebbe essere una farfalla, una coccinella…oltre che il resto di un gelato.
È come se la natura in parte si presentasse così come è (ramoscelli, tronco, arbusti, acqua) e in parte si trasformasse in cose (monete, bicchiere, letto, eccetera), o viceversa. È come se l’arte ora crescesse nei boschi, accanto alle fonti, per esempio anche il tronco può far pensare a un capitello cresciuto in un bosco.
“Per rivalutare” la £ira significa quindi nobilitare le cose attraverso l’arte. L’arte ha un ruolo fondamentale nel sollevare un paese dalla degradazione, nel renderlo seducente, autorevole, colto, pregevole e nel fornirgli materiale sano per un arricchimento anche in senso economico.
Intervista con Karl Holz, 28 agosto 1996, Akademie Schloss Solitude, Stoccarda, pubblicata in SACCO e in Casa degli Artisti mostre, edizioni Casa degli Artisti, Milano, 6 dicembre 1996
testo per la serie Miniconferenze alla Casa degli Artisti, Casa degi Artisti, Milano, 16 febbraio 1996; letto in un incontro pubblico all’Akademie Schloss Solitude, Stoccarda, 20 marzo 1996; pubblicato in SACCO, edizioni Casa degli Artisti, Milano, 6 dicembre 1996 e in FUORICENTRO – contesti di arte contemporanea, mostra e catalogo a cura di Gianni Dessì e Daniela Lancioni, Stampa Aurelia ’72, Roma, dicembre 1996
I sensi che l’immaginazione o la prepotenza di un popolo hanno trasferito nelle cose nel corso della storia, fanno parte della materialità, della forma, dell’essenza, costituiscono energia. Quando affiorano le cose acquistano profondità, lucentezza, trasparenza, come un vetro che è stato pulito.
Le cose concentrano memoria di sensi e di significati: una massa d’acqua, per esempio, può far pensare alla sazietà, alla calma, alla limpidezza ma anche alla sete, all’arsura. E nel lavoro la limpidezza trionferà sulla sete, la lucentezza sull’arsura, perché un’opera è sempre un riscatto sulla miseria, sulla distruzione, sulla degradazione. Penso che “contemporaneo”, in arte, non è dato solo da ciò che è coevo (che potrebbe morire oggi, tra un mese, un anno, cent’anni…) ma è il volto che assume ora ciò che è sopravvissuto. Contemporaneo, che ci appartiene come epoca, è anche tutto ciò che è parte della coscienza e che ti scorre nelle vene con il sangue. Occorre dare una faccia a ciò che sopravvive e che si pensa possa sopravvivere, non a ciò di cui già si può prevedere la fine. Occorre quindi identificare sensi, significati superstiti. Fra questi bisognerebbe anche capire cosa può essere necessario ora e trovare quel tipo di immagine, quel tipo di forma, quel tipo di materia e il tipo di sensibilità che le appartiene.
Per fare questo immagino di vedere cose, materie, forme, come significati metabolizzati, come costituite di molecole di significati.
E nel lavoro devono affiorare, acquistare il senso di “presenze”, presenze che ci ricollegano psichicamente e fisicamente a sensazioni primarie.
Che cosa può essere primario ora?
Secondo me primario è:
®Luisa Protti
Che cosa può essere primario ora?, testo per la serie Miniconferenze alla Casa degli Artisti, Casa degi Artisti, Milano, 16 febbraio 1996; letto in un incontro pubblico all’Akademie Schloss Solitude, Stoccarda, 20 marzo 1996; pubblicato in SACCO, edizioni Casa degli Artisti, Milano, 6 dicembre 1996 e in FUORICENTRO – contesti di arte contemporanea, mostra e catalogo a cura di Gianni Dessì e Daniela Lancioni, Stampa Aurelia ’72, Roma, dicembre 1996
testo per la mostra di L. Fabro Fabroniopera a Palazzo Fabroni, dicembre 1994, Pistoia, e per l’opera Per rivalutare la £ira 1 (di L. Protti) esposta nella personale da Elisabeth Kaufmann, Basilea, marzo 1995; pubblicato in SACCO, ed. Casa degli Artisti, nuova edizione giugno 1996. Un estratto è pubblicato in Luciano Fabro Biografia Eidobiografia a cura di Jole de Sanna, edizioni Campanotto, Udine, 1996.
Alla mostra di un amico
Il Cubo di specchi riflette l’idea della mostra come una misurata e sapiente costruzione teatrale, concepita per realizzare una concatenazione di scene che concretizzano vicende intime, private, appartate e vicende pubbliche, collettive, politiche.
Il Cubo di specchi, al centro, ne è il cuore.
Un cuore che accoglie il visitatore. Generoso perché ti accoglie anche al suo interno, ma spietato perché all’interno si moltiplica specchiandosi infinite volte nelle sue pareti moltiplicandoti con lui. Sei imprigionato davanti alla realtà delle cose: “Individuo, la tua condizione è questa: all’esterno insieme a un pubblico di ‘sconosciuti’, all’interno insieme a un parente ‘estraneo’…”.
Un po’ di anni fa l’esperienza del Cubo di specchi era un normale prendere atto della realtà, una sensazione di arricchimento. Adesso il pubblico, la società, l’uomo, riflettono una crisi e l’esperienza del Cubo non è più pacifica, ma diventa un imperativo, un vincolo, ti costringe a risolvere un problema.
Le opere si sa, sono come gli individui forti, con un proprio carattere che reagisce alle situazioni… E se hanno dolcezza(il Nido) si rafforza la dolcezza; se altre hanno nel carattere un che di deciso, ora sono quasi violente (il Cubo di specchi per esempio, gli Attacapanni di Parigi per esempio, le Ceramiche di Essen, per esempio).
Definirei il Cubo di specchi un cuore razionale perché nella mostra c’è un altro cuore, tenero, delicato, candido, sensuale come i petali di un fiore bianco e carnoso…è il Nido, lontano da ogni indiscrezione, protetto al centro di un’aiuola intricata. Così come un cuore è un nido caldo nell’uomo, qui il Nido è come il cuore caldo del mondo (la sua vera collocazione sarà un parco naturale in Norvegia).
Questo lavoro succede alla Base del Mondo di Piero Manzoni in quanto ora il mondo non è più in grado di reggersi su una base. Bisogna che si rigeneri e gli occorre una cuore, un cuore fatto con due rocchi di colonna dall’anima greca che accoglie uova bianche di marmo: semi, cultura, innocenza, candore e riparo.
Il Cubo di specchi e il Nido sono due cuori dai battiti distinti: uno più altisonante, come un altoparlante; l’altro come un bisbiglio, una voce dal suono discreto.
La prima voce trascina, proietta l’individuo nel vortice della storia dell’umanità. È anche un eco in cui risuonano altre voci: la voce di Nadezda, delle Iconografie, di Sisifo, di C’est la vie, di Passi… Tutti questi lavori hanno un peso che è quello della coscienza che contengono, ma l’immagine è leggera, è quella del nuovo spirito che costituiscono. A noi rimane il peso sulla coscienza, e nella mente un’immagine aerea, una presenza effimera, un sogno…
Il Nido, Io (l’uovo), la Foglia, le Erbe, risuonano invece come voci solitarie, cantano per se stesse, ma ci fanno sentire la consanguineità delle individualità.
Se ad esempio confrontiamo i due autoritratti Io (l’uovo) e Sisifo: Io è come un sentire se stesso, mentre Sisifo è quasi un rilevare il proprio ruolo, il proprio peso. Sisifo è un autoritratto diretto al pubblico; Io è trasmettere privatamente un sentimento di sé.
Nella mostra di Pistoia hanno in comune la farina o la pasta di pane, perché?
Sisifo ha dato un po’ della sua pasta al proprio compagno affinchè ne faccia una base morbida. Ma poi la pasta si è indurita, si è un po’ crepata, è diventata crosta, ha preso del caratteraccio di Sisifo: la pellaccia di Sisifo fa ora da culla alla morbida pelle di Io. Come sfondo al Nido è la Dialettica stesa lungo la parete traforata dai loggiati del cortile interno di Palazzo Fabroni: un esterno appartato dunque. La Dialettica è una ragnatela di catenelle, è quindi emblema dell’ordine che lega le cose e i concetti secondo una logica naturale; dalla parte opposta, sulla facciata pubblica è l’ Italia all’asta: quindi un annuncio di svendita (e davanti alla chiesa di Sant’Andrea che, guarda caso, contiene un’opera di Giovanni Pisano: guarda Giovanni come siamo ridotti!) e, contrapposta, una disposizione a indicare gli elementi che possono concorrere alla rinascita delle cose: la facciata con la Dialettica è come rivolta al paesaggio sullo sfondo e al cielo. Entrando nel cortile ti trovi a guardare qualcosa che guarda al di là.
Sopra, al primo piano, sul pavimento del loggiato, corrono gli Obelischi creando una curva che si estende in tutta la lunghezza dell’ambiente; anch’essi danno l’impressione di rincorrere un punto al di là, nel vuoto, nell’aria, un punto che non si vede.
Sulle pareti dello scalone interno, pareti graffite e comunicanti con grandi oblò scavati all’interno, si tesse il filo di Penelope.
Quella di Penelope è un’azione assorta, quotidiana, ininterrotta, che si estende giorno dopo giorno (scalino dopo scalino) fino ad annullare l’ossessione del tempo: la mente di Penelope è rivolta lontano, come se guardasse proprio da quegli oblò scavati nella parete che tornano a inquadrare il lavoro creando punti di vista stranamente luminosi e ombrosi.
In un’altra stanza la luce entra da due finestre agevolata dai Nudi che, scendendo le scale, le fanno da scivolo (i Nudi si potrebbero identificare come delle moderne Veneri cicladiche, sintesi formale di sensualità e candore). L’interno è trasformato in una gabbia dorata e animata da strani fiori con gambo ad anello (mini Raccordi anulari) che si protendono ironici e nervosi. Mi fanno pensare alle orecchie degli animali quando sono tese a sentire la provenienza di un suono, di un movimento… È come se, grazie a queste antenne anche le mie orecchie captassero suoni.
Sono le voci dei lavori che si levano dalle singole stanze. C’è qualcosa che ricorda la Divina Commedia di Dante, un concerto in cui ogni suono conduce da qualche parte nello spazio aperto e vasto del mondo e della Storia o nel luogo più chiuso e profondo: non c’è tempo per la contemplazione.
Se dovessi paragonare questa mostra con un’epoca artistica indicherei quella barocca, perché è come Bernini e Borromini: estroversa e chiusa, mai pacificante.
Alla “fine” si conferma quella che era all’“inizio”: un Cubo di specchi, un processo complesso e ramificato, ma anche un grande pasto che può andare di traverso, essere semplicemente evacuato, oppure, ma questo è un augurio, metabolizzato.
Alla mia mostra
Monete, catene, acqua, sassi marini, fili: simboli politici e storici, simboli di schiavitù, di fame e di sete, di povertà e di ricchezza, di luoghi… Scolpiti dentro le cose, subiscono un incantamento: trasformati in un tesoro profondono ricchezza e splendore.
Anche la Porta dei Leoni a Micene afferma la propria bellezza e il trionfo sulla distruzione. Il vaso di vetro abbastanza ampio e colmo d’acqua fino all’orlo: per pensare alla sazietà ma anche alla sete, alla calma, alla serenità, alla generosità, alla limpidezza.
Matasse di catene: ciò che tiene, chiude, imprigiona, è abbandonato in libertà, una scia sinuosa, inerte e plastica, abbandonata sul mare di sassi.
I sassi marini: un misto di terra e acqua, minerali, sensazione di vastità, disegni, facce, forme, macchie e una superficie dalla luminosità polverosa.
£ira: la povera moneta d’Italia è anche antico e dolce strumento musicale, è anche simbolo di poesia, è anche uccello, è anche costellazione. In qualsiasi mano passi essa conserva la memoria storica e artistica di questo paese.
Vetri: grandi caramelle alla menta, verdi, densi e trasparenti, ricordano l’acqua di un bel fondale marino.
Fili: sono l’erba del lavoro, la sua parte segreta, la sua continuità nell’aria…la sua casa.
Per rivalutare la lira – alla mostra di un amico – alla mia mostra, testo scritto per la mostra di L. Fabro Fabroniopera a Palazzo Fabroni, dicembre 1994, Pistoia, e per l’opera Per rivalutare la £ira 1 (di L. Protti) esposta nella personale da Elisabeth Kaufmann, Basilea, marzo 1995; pubblicato in SACCO, ed. Casa degli Artisti, nuova edizione giugno 1996. Un estratto di Alla mostra di un amico è pubblicato in Luciano Fabro Biografia Eidobiografia a cura di Jole de Sanna, edizioni Campanotto, Udine, 1996.
pubblicato in Casa degli Artisti Mostre 1997, Per l’Arte 7, edizioni Casa degli Artisti, Milano.
Con Paesaggio metto a fuoco l’idea di metabolismo, quel processo per cui, in un organismo vivente, tutto ciò che è assimilato viene scomposto e trasformato producendo rinnovamento ed energia.
Nel mio lavoro “metabolismo” corrisponde all’idea di un passaggio da una cosa ad un’altra, un passaggio e una combinazione fisico-chimica tra due o più cose a distanza.
La realtà appare come eccitata chimicamente. Questo comporta una sensazione di fermentazione, di uno scomporsi e disassimilarsi di qualcosa in un’altra cosa. Il passaggio, anche invisibile, di materia, di luce, di umore da una cosa all’altra comporta il nascere di una parentela vicendevole. In questo senso anche l’uomo è una “cosa” tra le “cose”.
È come se il colore, le luci, la densità, il contorno di una macchia d’acqua ci facessero sentire in maniera tangibile la pelle di un serpente. Da una sensazione fisica e materica si produce l’immagine a cui quella sensazione appartiene. Tutto il mondo ci ritorna in mano, tutta la realtà risuona nella mente, dentro il corpo.
Il metabolismo è legato, nel lavoro, alla sofisticazione dei sensi e della fantasia che, penetrando nei segreti profondi di una cosa, la fanno come stillare.
Perciò non sarà qualcosa che esiste e basta, ma diverrà qualcosa che splende: sarà un avvenimento.
®Luisa Protti, estate 1994
Metabolismo, estate 1994, pubblicato in Casa degli Artisti Mostre 1997, Per l’Arte 7, edizioni Casa degli Artisti, Milano.
intervista pubblicata in Temporale n.34-35, edizioni d’Arte Dabbeni, Lugano 1994.
testo diffuso in occasione della mostra Scossa, Care/of, Cusano Milanino, 12 giugno 1994; pubblicato in TEMPORALE n.34-35, edizioni d’Arte Dabbeni, Lugano autunno 1994.
Tutti fuori a guardare un muro di cemento.
Fuori, su questo muro, ci hanno appeso anche le figurine.
Il muro di cemento è l’ottusità, l’indifferenza, l’impotenza;
le figurine la beffa di chi l’ha costruito e di chi lo protegge.
Chi vede le figurine, chi vede il muro di cemento.
In un caso come nell’altro non succede niente.
Io, che vedo il muro di cemento, ho pensato di costruirmi
una stanza di cemento (senza finestre).
Dentro e fuori una stanza di cemento.
Fuori per turbare, scuotere, provocare temporali o feste;
dentro per romperla con la fantasia.
Forse, senza saperlo, senza volerlo, ci hanno fabbricato una nuova bomba.
Ma i cocci non li esporremo in un museo, li trasformeremo.
Intorno e dentro a questa bomba sento qualcuno che schiocca le dita:
è nervoso perché è eccitato è teso verso qualcosa è allegro e schiocca le dita
sentendo una musica, a terra sono uova di cemento.
®Luisa Protti
Uova di cemento, testo diffuso in occasione della mostra Scossa (con Dadamaino, Mariella Ghirardani, Arianna Giorgi, Luisa Protti) Care/of, Cusano Milanino, 12 giugno 1994; pubblicato in SACCO, edizioni Casa degli Artisti, Milano 12/12/1993 e in TEMPORALE n.34-35, edizioni d’Arte Dabbeni, Lugano autunno 1994
testo diffuso in occasione della mostra Scossa, Care/of, Cusano Milanino, 12 giugno 1994.
Per l’Assunzione di Lorenzo Lotto, a Celana (BG), Servizio Civile decide di fare un viaggio per festeggiare e salutare quest’opera nascosta, poco frequentata, ma ancora sana.
Fare in modo che si mantenga sano ciò che è sano.
I passaggi obbligati, per esempio i musei, cercano di creare interesse per tutto, a vuoto: l’indistinto genera e mantiene l’impotenza.
Quando l’artista va in un museo ridona un ruolo a ogni singola opera, la vivifica, è come se facesse un viaggio per ognuna.
La libertà dell’artista coincide con la libertà dell’opera d’arte.
Un’opera distrutta è come un fiume inquinato: trascina tutto con sé. Non muore solo: muore quello che ha dentro, muore quello che c’è fuori. Per esempio muoiono i pesci dentro e muoiono i campi fuori. (Con le conseguenze che ne derivano).
La nostra è un’epoca di resistenza. Resistenza: “azione tendente a impedire l’efficacia di un’azione contraria”.
Chi ha messo le bombe al P.A.C. a Milano, in San Giovanni in Laterano a Roma, in via dei Georgofili a Firenze, sicuramente attribuisce molta importanza all’arte, pari alla paura che si prova verso una forza che non si vede, non si comprende, estranea.
La devastazione dell’arte è un sintomo di male che incombe in generale sull’uomo.
®Luisa Protti 12 giugno 1994
Resistenza, testo diffuso in occasione della mostra Scossa, (con Dadamaino, Mariella Ghiradani, Arianna Giorgi, Luisa Protti) Care/of, Cusano Milanino, 12 giugno 1994
testo pubblicato in SACCO, edizioni Casa degli Artisti, Milano 12 dicembre 1993 e in TEMPORALE n.34-35, edizioni d’Arte Dabbeni, Lugano autunno 1994.
La realtà mi dà stimolo solo quando sono assolutamente concentrata, tanto concentrata che mi riesce difficile passare col rosso e andare sotto una macchina ( ci vai sotto solo quando sei distratto, non concentrato!).
La concentrazione crea una nuova condizione all’interno della realtà, per cui questa diventa una presenza senza immagine. Maggiore è la concentrazione e maggiore è lo stimolo e non viceversa. Lo stimolo è una conseguenza della concentrazione o, meglio, una sua trasformazione. Mi preme definire o raccontare il rapporto che io, artista, ho con la realtà. Spiegare come avviene il lavoro, i tempi che ha.
Il primo momento del lavoro.
È l’esperienza del vuoto. L’esperienza del vuoto è esclusività dell’artista.
Corrisponde a desiderio e ricerca di qualcosa che non si sa. È un’immagine che ha solo profondità (la profondità va in tutte le direzioni, viene anche in avanti, si sposta lateralmente), carica di luminosità e di capacità di credere, per questo è una profondità che emana colore.
È l’esperienza di uno che guarda da una finestra che non ha forma, non ha limiti. Non si vede niente. È caricarsi in questa condizione.
Il momento successivo.
Corrisponde a una trasformazione dell’esperienza precedente.
È la condizione dell’artista assolutamente concentrato. È il contatto con la realtà che non si vede, che appare come un’immagine sfocata, una presenza che fa rumore.
La realtà esterna contemporanea e la realtà nella memoria si avvicinano, arrivano a confondersi, diventano simili. La concentrazione dell’artista non è né sulla realtà esterna, né su quella della memoria: è concentrazione pura, nella quale si coalizzano conoscenza, esperienza, coscienza, sensibilità, energia, immagini… tutto.
Si forma un generatore.
Rispetto a questo l’esterno contemporaneo e l’esterno memoria sono due fili collegati al generatore. Essi si accendono a intermittenza.
Il senso di “ogni volta che l’artista comincia un lavoro comincia daccapo” (L. Fabro) è questo: si cominicia daccapo perché si concentra tutto al punto in cui si è, e tutti concentrati, si scopre un nuovo punto di concentrazione (voglio dire che un nuovo lavoro non inizia perché ci si mette lì e ci si concentra su una nuova cosa).
L’artista centra la sua concentrazione su un nuovo punto.
Oppure questa concentrazione indirizza il suo lavoro.
L’opera non nasce meccanicamente, né dall’esperienza, né dalla realtà, né dall’immaginazione, né dalla memoria.
L’opera nasce da questa condizione carica di tensione, perché è la condizione del “possibile dove è possibile tutto”.
È il primo gesto dell’artista che dà immagine a quello che non vedeva dalla finestra senza forma. La forma in arte non appartiene all’immagine di ciò che si vede ma di quello che si assimila e trasforma.
Considero l’esperienza artistica un’esperienza quotidiana. Quindi un artista non ha bisogno di fare un lavoro per spiegarsi questa esperienza. Ma ha bisogno di questa esperienza per fare un lavoro.
L’opera d’arte non ha una funzione mediale. Per me il “rapporto con l’altro” è in un lavoro quando si crea un movimento che appartiene all’opera, al luogo e allo spettatore.
Questo è fisico quanto un’impronta digitale.
Il mondo (cose, uomini, natura) è una massa di materia animata.
Il mondo è un’opera informale.
Secondo me Fontana dice questo: il buco trasforma il mondo in un’entità materia, neutra, pura, buia, una materia arte da cui trarre immagini.
Il “contesto” oggi ha assunto un valore effimero.
Decontestualizzare non ha senso.
Decontestualizzare è teorizzare l’acqua calda, in quanto non mi vengano a dire… fa parte dell’esperienza artistica e l’artista l’ha sempre fatto, nei secoli dei secoli.
Anzi posso dire che prendere una cosa e metterla da un’altra parte per renderla strana è un atto di decontestualizzazione un po’ banale, perché noi sappiamo la provenienza delle cose. Creare una forma che non c’era, creare un senso che non c’era è una forma di decontestualizzazione che corrisponde a un livelo più alto e misterioso delle facoltà umane.
Chi fa le guerre, chi crea le crisi, crea un tipo di storia. L’artista non crea la storia delle guerre, crea la storia dell’arte. L’artista si muove con quello che ha tra le mani e sotto i piedi.
E se ha tra le mani un pezzo di cemento e sotto i piedi una cavalla di Lascaux continuerà con questi la storia dell’arte.
®Luisa Protti, 1993
Luoghi in comune, testo pubblicato in SACCO, edizioni Casa degli Artisti, Milano 12 dicembre 1993 e in TEMPORALE n.34-35, edizioni d’Arte Dabbeni, Lugano autunno 1994.
testo per l’opera esposta alla XLV Esposizione Internazionale d’Arte. Punti cardinali dell’Arte, a cura di Achille Bonito Oliva, in Complessa, a cura di Jole de Sanna, Biennale di Venezia 1993; pubblicato in SACCO, edizioni Casa degli Artisti, Milano, 26 aprile 1993 e in TEMPORALE n.34-35, edizioni d’Arte Dabbeni, Lugano autunno 1994.
Sole
Un sole è un “capriccio” nei confronti di ciò che viene fatto passare come “reale”, ora.
Mi riferisco all’immagine della realtà così come te la vogliono fare vedere in questo momento alle mostre, alla televisione, in generale.
Tutta la natura è “fantasia” rispetto a questo “reale”. Io voglio preservare la mia libertà di vedere tutta la natura come reale.
Fare un sole, un riflesso della luna nell’acqua.
Questo significa, oggi, natura: qualcosa che “irrompe tra i significati e li sommerge” (Mandel’stam).
La mia è voglia di dare al sole consistenza plastica, è questo che si avvicina ad una sensibilità originaria.
Voglio fare il sole che si irradia, che si spande, che si spezza in quello che incontra.
Ecco un sole fossile. È l’immagine in pezzi, disposti in punti diversi, che scompare e riappare, nel buio o nella luce, nell’aria di un luogo.
Tra un pezzo e l’altro c’è come un ponte.
Ogni pezzo ha un’immagine prodotta dal tempo che a suo modo è finita e, a suo modo, è transitiva.
L’immagine si sposta da un pezzo all’altro.
Una festa o una battaglia
Una mostra oggi è un’improvvisazione.
Quali sono i mezzi dell’improvvisazione?
Velocità, deviazione, sorpresa,
rapidità di pensiero associativo.
Una mostra è modificazione di una casualità.
(Intendo per casualità forme che si trovano disposte in modo sparpagliato
a cui l’artista ha già dato identità formale).
L’artista ha di fronte questa casualità.
La muove fino al crearsi di una tensione,
di una dilatazione, di una distensione,
di un’espansione, cioè di una dimensione.
Questo avviene per spostamenti,
perciò quello che conta è la posizione dei “pezzi”.
La posizione dei pezzi in ragione di che cosa?
Di qualcosa che non c’entra con la continuità formale,
qualcosa che sia deviazione, sorpresa, velocità.
Colpi di luce e d’ombra in una festa
o in una battaglia.
®Luisa Protti, 1993
Sole e Una festa o una battaglia, testo per l’opera esposta alla XLV Esposizione Internazionale d’Arte. Punti cardinali dell’Arte, a cura di Achille Bonito Oliva, in Complessa, a cura di Jole de Sanna, Biennale di Venezia 1993; pubblicato in SACCO, edizioni Casa degli Artisti, Milano, 26 aprile 1993 e in TEMPORALE n.34-35, edizioni d’Arte Dabbeni, Lugano autunno 1994.
comunicato stampa per la personale alla Galleria ERHA, di Eva Pollano e Renata Wirz, Milano 16 ottobre 1992.
Imenei
Imenei perché danno l’idea di una danza nuziale. Tenuti in tensione da una fascia, non si toccano, si attraggono.
Il movimento impresso all’argilla dalla forma può essere suggerito da una cosa reale, il taglio di una bocca, il gesto di una mano, eccetera, può essere immaginato o trovato casualmente.
Vetri
I vetri sono ritagliati come i frammenti di spazio delle Demoiselles d’Avignon. Il vetro trattiene l’attenzione, mentre altri elementi (campiture di bianco, strisce di gomma nera, o di tela colorata) contrastano questa attrazione, in modo da creare colpi d’occhio, direzioni, aperture.
La suggestione del vetro, la sua presenza senza senso di materialità, mi hanno suggerito e permesso di disegnare, dipingere, costruire.
Rispetto alla volontà di dare alla realtà un senso surreale, sociale, angoscioso, ossessivo, nullo, dove tutto è impostato sulla simulazione e sulla confezione, mi pongo all’opposto: l’argilla è una materia viva, che si può animare, quando è fresca sembra carne, pelle, quando asciuga è come un biscotto, e ne mantengo l’effetto.
Le qualità del vetro sono reali, fascinose e attive, io lavoro su quelle, si ciò che mette in atto la mente e il corpo in modo positivo e che rispetta l’astrazione delle attitudini dell’uomo: vedere, sentire, immaginare, ecc.
®Luisa Protti
Imenei e Vetri Inaugurazione 16 ottobre 1992 fino al 28 novembre – Galleria ERHA, di Eva Pollano e Renata Wirz, Milano, 16 ottobre 1992.
testo pubblicato nel volume LUISA PROTTI, a cura di Jole de Sanna, all’Insegna del Pesce d’Oro edizioni Scheiwiller, Milano febbraio 1992
Lavorare al buio, immaginare come se tutto non fosse mai esistito, cioè eliminare l’immagine delle cose così come noi le sappiamo. Il buio non cancella le cose, le fa sentire senza vederle. In questo luogo buio sta la coscienza dell’artista, che potrebbe essere come una pietra formata nel tempo da tante cose che si sono sedimentate, sovrapposte, stratificate. Il mondo ora è visibile nella propria coscienza. Un’immagine è prelevata dalla nostra coscienza.
Se io non riesco ad adoperare niente di ciò che sta fuori devo costruirlo da me, attraverso la memoria, la cultura che è dentro di me. Schwitters adoperava quello che c’era in giro, io ora non posso più, perché devo ricostruirmi il resto. Fare una specie di magazzino, costituito da elementi-materiali-materie che io mi creo e che rappresentano la casualità e possibilità di lavori.
Sto pensando a lavori determinati da un atto che genera la forma. Per spiegarmi potrei dire: prima della forma della bocca c’era l’idea di fare un sorriso, ed è il sorriso che ha creato la sua forma, è un sorriso che può coordinare tutte le altre cose.
Se mi trovo a lavorare in una galleria ho due possibilità: o adopero la forma, le misure, gli elementi dello spazio in modo che questi sembrino elementi del lavoro, o creo lo spazio di ogni lavoro (questo mi rammenta le opere greche arcaiche o classiche soprattutto quando ogni immagine è chiusa in una propria solitudine).
Opere fatte di parti separate e ogni parte vorrei che fosse come una concentrazione di moto, e solo momentaneamente ogni parte sta in un insieme, per un’effimera concordanza.
Le opere che ho fatto con la creta inseguono questo pensiero: metto in moto la creta in modo che questa assuma delle forme che vagamente potrebbero ricordare qualcosa di natura o di arte. Sono più che altro ricordi di qualcosa che produce movimento, che si apre, che vuole uscire. Nell’insieme queste forme danno l’idea di un gesto. Il colore è una cosa staccata è un pezzo di qualcosa.
®Luisa Protti
Febbraio 1992, testo pubblicato nel volume Luisa Protti, a cura di Jole de Sanna, all’Insegna del Pesce d’Oro edizioni Scheiwiller, Milano, ottobre 1992.
nel volume LUISA PROTTI, a cura di Jole de Sanna, all’Insegna del Pesce d’Oro ed. Scheiwiller, Milano ottobre 1992
Etico è sinonimo di artistico, implica agire secondo l’arte. Si sviluppa dalla discussione su problemi artistici: relazione idea-immagine, relazione artista-realtà, relazione artista-arte, e su ciò che può determinare il rinnovamento della realtà. Per tali ragioni vi si parla di sguardo filologico verso le opere che precedono, così che l’occhio non balla di qua e di là, ma si identifica in una cosa, le va dentro, la ripercorre tutta.
Mentre imperversavano i concetti di nomadismo, di disinibizione, di libero uso delle tecniche e dell’arte passata, Etico sosteneva: non si può fare come si vuole, ma come si “deve” e si “può”. Questo “si deve” e “si può” nega la libertà di fare quello che si vuole dell’arte ed afferma la libertà dell’arte di essere come deve. E’ l’arte che detta il comportamento, mentre si tende a fare dell’arte una realtà separata, senza relazioni con l’ordine esterno.
Il lavoro fa scoprire dei segreti, che permettono per un verso di creare lo spazio in cui prolungarsi e nello stesso tempo di scoprire che il segreto del proprio lavoro è scoprire sempre più anche l’arte passata, affinità con altri artisti prima.
Queste affinità rafforzano l’identità.
®Luisa Protti
Su Etico, nel volume LUISA PROTTI, a cura di Jole de Sanna, all’Insegna del Pesce d’Oro ed. Scheiwiller, Milano, ottobre 1992.
testo diffuso in occasione della mostra personale alla galleria Salvatore Ala, New York novembre 1987.
Luisa Protti – Jole de Sanna
(Lamiera verde)
Volevo una grande opera sollevata da terra e distaccata dai muri, il cui corpo, disteso, di una materia fluida dove l’occhio scorre, fosse un luogo. L’ambizione è l’aspetto fondamentale di questo lavoro, come dei precedenti dell’autore. Volevo. Un’immagine prepotente, chiara, si è formata nella sua mente. Lei compone atti e materiali che diano corpo a quell’immagine, quali che siano le difficoltà, le esigenze esecutive, pratiche. Le sue immagini sono dei corpi luminosi, sono fatte di colore, l’occhio le attraversa perché il colore ha la sostanza dell’aria, senza confini ma con una traccia, un’impressione lasciata dalle cose: sensazioni di fiori intrecciati o di frutti, l particolare di un quadro, un dettaglio naturale, l’effetto di una lettura.
(Foglia)
Dalle Foglie nasce Foglia, con un proprio colore, un proprio modo di stare nello spazio. Il nastro di ferro le disegna intorno un vortice d’aria. Pronunciato da Protti, volere esprime la direzione che l’immagine ha preso nel suo pensiero. Questo non vuol dire come si era soliti dire per l’arte di due generazioni fa (l’arte concettuale) che l’arte si riduce agli intenti. Vuol dire il contrario: è la definizione di una maniera di fare per cui i gesti esecutivi si organizzano in senso naturale per assecondare gli impulsi di una mente che pensa per immagini.
(Barca)
Due fogli di ferro piegati disposti specularmente e frazionati da due barre di metallo suggeriscono l’immagine di una barca. A me indica una somiglianza: la somiglianza tra azione ed immagine, nel senso che io non eseguo una cosa ma la compio.
La volontà di fare è circoscritta all’attività artistica. Non ai “contenuti”, al contingente, al conformismo esteriore. Rispetto a quest’ultimo è polemica nel fatto che gli interessi che nutre sono semplicemente di arte.
“Capriccio” di Luisa Protti e Jole de Sanna, testo diffuso in occasione della personale alla galleria Salvatore Ala, New York, novembre 1987.
testo pubblicato in PANORAMA LOMBARDIA, supplemento giugno 1985
La foglia, la farfalla, lo sbuffo di una manica…
Fra i vari disegni uno ha la forma strana di una cosa che cambia aspetto in relazione al colore, al luogo, accostata ad altro e a seconda della persona che la guarda è una foglia, una farfalla, uno sbuffo di manica, un peperone…(così hanno detto). Io ho ripassato i colori su questa forma fino a che risultasse equilibrata nelle sue tinte e di una materia che non fosse piatta ma si potesse attraversare con lo sguardo, un corpo che si gonfia col suo colore. A quel punto guardo la “farfalla” rossa e blu e immagino, per associazione, che prima di essere quella che ora vedo, era l’immagine di un foglio aperto. Guardo il foglio aperto e lo immagino farfalla. Il sogno funziona, ha logica, appoggio lo “sbuffo di manica sul foglio aperto”.
…la ghirlanda.
Pensando a un pizzo in forma di cuscino, cerco un segno che riesca a gonfiare la carta. La parte centrale lascia vedere il colore del pizzo fatto dal blu dell’inchiostro e dal bianco della carta, poi ho appoggiato sopra una ghirlanda blu e rosa.
La ghirlanda è l’immagine che ordina i vari elementi. È fatta di tante macchie che fluiscono l’una nell’altra creando il giro della ghirlanda. Ma è poco esatto dire: – ogni macchia fluiva nell’altra e si formava la ghirlanda. Se guardo il lavoro penso: quale di tutte queste cose io vedo prima, la ghirlanda? le macchie? il colore? La materia o il colore di un petalo? di una nuvola? o di un pizzo?…o non so che, l’aria? la carta?
Ogni cosa si mimetizza.
®Luisa Protti
La foglia, la farfalla, lo sbuffo di una manica e… la ghirlanda, testo pubblicato in PANORAMA LOMBARDIA, supplemento giugno 1985.
testo pubblicato in Antipasti, Per l’Arte 4, edizioni Casa degli Artisti, Milano ottobre 1981.
ROMANZO
Coccio
…Poi ho incominciato a vederlo in ogni particolare, ad accorgermi di tutto il movimento che c’era all’interno, come tutto fosse legato anche se da un lato la materia si muoveva in un modo e dall’altro in un altro. Le cose che vedevo dentro cominciavano a muovere la mia immaginazione, infatti l’ho preso in mano per poterlo vedere meglio. In pratica il coccio era come fosse sparito, cioè non avevo più un normale pezzo di creta, vedevo un mare che si muoveva, un’esplosione di segni, da questa esplosione uscivano tutte le linee e così le luci, i movimenti che formavano tutte le cose, una piuma, delle rocce… Non pensavo proprio se quello che stavo facendo era l’imitazione del coccio o no, disegnavo e basta, perché mi piaceva quello che stava uscendo, come quel coccio si stava trasformando. Ero proprio entrata dentro.
Tutte le linee che ho fatto non sono uguali a quelle del coccio, io sono stata sollecitata dal coccio, ma quello che ho fatto è diverso, il coccio è solo un pezzo di argilla, il mio disegno gli corrisponde solo come immagine generica. Vedendo aumenti i confini della vista. Disegnare il coccio mi è servito molto, se ci penso ora dico che da lì avrei potuto capire il pensiero, il lavoro che l’artista deve fare. È come se contenesse “Regole d’arte”. Il discorso sull’unità e sul particolare, cosa è la luce, il movimento, una stessa materia che può dare diverse sensazioni, acqua, aria, roccia, piuma,… come da una cosa nasce l’altra, come l’artista debba continuamente trasformare, come ogni cosa anche la più piccola deve avere il suo movimento giusto, la sua luce, la sua qualità, che però è legata a tutto il resto, perché subito dopo si è trasformata in una nuova luce, un nuovo movimento, una nuova forma.
Il Pizzo
Un pizzo è di per sé una cosa morta, astratta. Volevo ottenere una cosa armonica in tutto il pizzo, cioè un prendersi, un toccarsi, un richiamarsi, uno scambiarsi di un segno con l’altro, di un movimento con l’altro. La prima impressione di armonia nell’inseguimento di una continuità attraverso tutti i segni. Io penso all’armonia come la linfa che fluisce, dà nutrimento e collega le parti tra loro. Quando guardo le piante, le rocce, ho sempre questo senso (qualcosa scorre e unisce) non vedo un inizio e una fine, ma avverto un’idea che unisce, ordina, equilibra le parti e fa si che il confine delle cose sparisca, il tuo occhio scivola continuamente da una parte all’altra. Quel fondo crea un corpo, una sostanza aerea in cui si muove il pizzo, entra, esce, scompare, riappare. A volte può sembrare che il fondo sia avanti e il pizzo sia dietro o viceversa. Appare lo spazio.
I Diritti dell’immagine
Mi chiedo perché ogni autoritratto è venuto diverso dall’altro.
Ricordo bene che disegnavo con la massima attenzione, controllavo ogni parte del viso e cancellavo spesso una stessa linea, ad esempio la bocca…non so quante volte avrò cancellato un solo trattino perché se no non mi veniva la cosa esatta, non perché la dovessi fare uguale, ma se solo quel trattino era fuori posto, mi creava un’immagine, un’impressione, un senso che non andava, non era giusto…O gli occhi, se gli occhi non avessero quella forma precisa, se sopra non ci fosse quel sopracciglio, il contorno del viso non avesse quel movimento…non avrei quello sguardo. Io comunque disegnavo quanto mi bastava. Eppure io sono tutti quegli autoritratti diversi, tutti quei disegni. Allora la matita sarebbe come i miei occhi? O come la mia testa? Che cosa è la matita? Allora parlo di matita o di disegno?
La matita può essere come la mia mano che io guido secondo quello che vedo e capisco, il disegno sarebbe come la mia intelligenza.
Se ogni giorno mi fossi fatta una fotografia avrei avuto sempre immagini uguali, magari cambiava l’espressione, ma ogni giorno io mi sono fatta un disegno, il mio disegno ha fatto si che ogni ritratto venisse diverso.
Guardo quel ritratto e vedo che io mi guardo, è come se avessi fatto il ritratto di un’altra persona. Vedo questo disegno che guarda.
Da quei ritratti viene fuori qualcosa di me che io non sapevo, non mi aspettavo. Immagino che ogni mio ritratto sia io che mi guardo, non il mio riflesso in uno specchio, ma io in quel momento di lavoro.
La scatola
Strappo dei pezzi di carta di riso che rimangono sfilacciati ai bordi per trovare un segno che unisca i pezzi di carta con l’aria intorno.
Dai disegni viene fuori che lo spazio risulta da un buon uso del segno, e dall’intonazione dell’oggetto con l’aria intorno. Il problema gira intorno all’oggetto: secondo come è l’oggetto faccio l’aria intorno, o trovo l’oggetto che crei quell’aria intorno? È come intonare un nastro a un vestito. No, la differenza è intonare le cose e bilanciare tra cose differenti.
Il problema è di capire quali entità giocano in opposizione, in grandezza.
Io dovevo fare o l’oggetto grande o piccolo. Dato che avevo fatto le pareti in quel modo, l’oggetto doveva avere una misura che corrispondeva al modo in cui avevo fatto il resto.
Nel cortile del Sangallo intanto ho sentito questa proporzione. Le colonne, lisce senza scanalatura, forse per la dimensione del cortile erano fatte così. Anche la forma dei capitelli e la modanatura sopra. Era tutto semplicissimo.
Poniamo che il cortile sia ed è una scatola: viene fuori che è un insieme di proporzioni.
Allora perché non uso quelle proporzioni, sezione aurea, ritmo armonico pitagorico. Coordinazione prospettica? Lo spazio viene attraverso la relazione tra le cose, tra le materie che si usano, se per esempio uso la matita usando segni diversi per la gomma e per il tavolo. Poi devo trovargli una forma come ad esempio una cornice, che tiene conto di come sono quelle cose, che bisogna annullarle come pezza, fare molti buchi vicini, e la cornice permetteva questo.
Dunque il rettangolo è l’immagine, ma la forma è elastica, la stoffa ha un peso che si vede. Non ha confini finiti, ma attraverso la luce (lo sfilacciamento) si mette in relazione con il resto.
La Cornice
I primi disegni in una cornice.
Far esistere una materia: il panno sintetico.
Trovo dei pezzi di panno per caloriferi, penzolanti, insignificanti. Come possono essere trasformati, mossi? Cerco un colore che può equilibrare, non è delicato, lo uso in modo rozzo per dare presenza alle pezze, che sono di per sé evanescenti. Strappo il panno fino a formare degli squarci dietro ai quali escono i disegni. Quel tipo di panno fa sì che gli squarci non siano squarci, perché sono imprecisi, rimangono degli strati trasparenti sovrapposti, così i disegni sembrano al di qua, perché hanno corpo, nello stesso tempo per mezzo di quello squarcio si arricchiscono di luce e di aria. Come dare forma al tutto?
Una cornice fa sì che le pezze perdano completamente il loro stato di panni penzolanti, perché posso fare uno squarcio vicino all’altro e mettere i disegni vicini per annullare la pezza. La cornice dà senso all’immagine perché ordina le pezze e i disegni. Già ogni cosa si giustifica con l’altra.
Come bilancio il vuoto che si crea in mezzo, la leggerezza della cornice? Disegno un materasso visto dall’alto e da cinque lati, con un segno secco, pulito. Le palline di lana del materasso ripetono il ritmo dei disegni nella cornice. Dentro, attorno ai bordi, accenno, ma con un segno evidente, i disegni della cornice. In questo modo ottengo trasparenza, i disegni sono sia davanti che dietro.
L’idea è l’immagine che uno ha di un lavoro. Il lavoro è dare concretezza, realtà all’immagine. Cosa vuol dire? Vedere la forma, precisare le dimensioni, capire con quale materia si crea. Trovare il posto giusto a ogni cosa arricchendo ognuna con la vicinanza delle altre, non per creare una composizione, ma delle necessità. Perciò sapere dove arriva il mio controllo delle cose.
Scoprire man mano un lavoro, trovare differenti possibilità.v Nella cornice ho messo un materasso, ma un lavoro non è un accostamento di significati, è un insieme di rapporti reali, di risonanze, di equilibri, che creano un’unica immagine.
scritto da Luisa Protti su problemi in comune.
Romanzo, testo pubblicato in Antipasti, Per l’Arte 4, edizioni Casa degli Artisti, Milano, ottobre 1981.